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Miniera di Monteponi (Iglesias)

Località: Iglesias – Iglesiente (lat. 39° 18’ 4.39” Nord; long. 8° 30’ 37.36” Est)
Estrazione mineraria prevalente: piombo (Pb, Z=82) e zinco (Zn, Z=30)
Altri elementi inclusi in minerali: argento (Ag, Z=47) e cadmio (Cd, Z=48)
Altimetria (media): 200 metri
Profondità raggiunta: 160 metri sotto il livello del mare
Sviluppo verticale: oltre 500 metri
Proprietà: pubblica
Posizione: lat. 39° 18’ 03.99” N, long. 8° 30’ 43,36”

Il villaggio minerario si presenta come un insieme di edifici distribuiti razionalmente su una vasta area, tali da assumere l’aspetto di un unico grande stabilimento industriale. Sono presenti due laverie meccanicizzate: la “laveria Vittorio Emanuele” e la “laveria Calamine”, costruite sulle fondamenta di antiche laverie. Domina la valle la palazzina Bellavista (sede della direzione della società Monteponi e, in tempi recenti, della sede staccata dell’Università degli Studi di Cagliari), realizzata a partire dal 1865 e divenuta simbolo della miniera. Poco lontano si trova il “pozzo Sella”, dedicato al Ministro Quintino Sella, e il “pozzo Vittorio Emanuele” dedicato al re. Sono presento molti edifici e impianti per la lavorazione dei minerali; altri edifici si trovano poi sul fianco del monte: forni di calcinazione e lo scavo a cielo aperto detto “scavo di Is Cungiaus”, a forma di cono rovesciato e sul quale si aprono numerose gallerie. La miniera e il villaggio minerario di Monteponi, con i suoi impianti e edifici, è tra i più grandi e importanti della Sardegna. L’insediamento minerario di Monteponi è molto antico: la località mineraria viene segnalata, per la prima volta, in un documento del 1324 come “Monte Paone” (dal testamento di un imprenditore minerario pisano), successivamente denominato “Monte Luponi” o anche “Monte de Pony” e Monteponi a partire dal 1649. Per lungo tempo è stata una delle maggiori miniere dell’isola, distinguendosi per l’efficienza e per la produttività. Nell’ultimo decennio degli anni ‘90 ha gradualmente chiuso i cantieri e cessato definitivamente l’attività estrattiva nel 1998. La storia dell’attività mineraria nel territorio dell’Iglesiente è antica. L’archeologica del territorio del Sulcis-Iglesiente testimonia attività, seppure limitate, già dal Neolitico (VI millennio a. C.) e in particolare nel periodo nuragico (approssimativamente tra il II millennio e il II secolo a. C.) e una intensa attività mineraria punica (509–238 a. C.) e romana (238 a. C. – 456 d. C.) attorno ai giacimenti di piombo e zinco lungo la costa sud-occidentale, in particolare di quelli attorno agli attuali insediamenti di Monteponi e Montevecchio. Per avere altre testimonianze di rilievo dobbiamo attendere il XIII secolo, per circa 60 anni i pisani (Gherardo e il nipote Ugolino della Gherardesca prendono possesso del Sulcis e dal Cixerri, nel 1258 dopo la fine del “Regno di Cagliari”) curarono l’attività estrattiva in modo proficuo, garantendo una decisa stabilità economica per Villa di Chiesa (sorta probabilmente attorno a un piccolo agglomerato attorno alla zona attuale di San Salvatore). Nel periodo della dominazione pisana l’intera zona che circondava le mura della città fu interessata da numerosi scavi per la ricerca di minerali. Dopo la dominazione pisana (1258-1324), la dominazione aragonese (guerre di conquista 1323-1479, dominazione 1479-1720). Il 13 giugno 1323 gli aragonesi di Alfonso “il Benigno” sbarcarono a Palma di Sulcis, l’attuale San Giovanni Suergiu, e si diressero verso Villa di Chiesa assediandola per sette mesi e otto giorni: le guerre e la crisi economica portarono all’abbandono, pressoché totale, degli scavi. I vari bacini minerari aperti in epoca pisana non portarono risultati immediati. Bisogna attendere la metà del XIX secolo per avere delle attività imprenditoriali di rilievo.

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Miniera di Monteponi (Iglesias)

 

Fu il governo del regno sabaudo (1720-1861) a tentare di rinnovare l’interesse per l’industria mineraria. Nel 1721 venne accordata una concessione generale di tutte le miniere sarde alla Società Nieddu e Durante per un periodo di vent’anni per lo sfruttamento della miniera di Monteponi e di altri giacimenti del territorio dell’Iglesiente. Nel 1741, allo scadere della concessione mineraria, non fu rinnovata e passò alla società svedese Mandel con un contratto trentennale, raggiungendo buoni risultati. Oltre alla rinnovata gestione delle maestranze, vennero introdotte anche innovazioni tecniche come l’uso diffuso delle mine (1744). Dopo varie vicende e con il ritorno alla gestione statale i risultati economici non furono in linea con le attese e, a partire dal 1782, furono chiuse molte miniere. Anche se dalla fine dell’800 venne introdotto l’utilizzo di condannati ai lavori forzati, negli scavi e nello spostamento dei materiali, a Monteponi l’attività estrattiva non fu considerata soddisfacente. Negli anni tra il 1825 e il 1830 si ha la consapevolezza della rovina industriale, raggiunta gradualmente a partire dall’inizio del XIX secolo, grazie alle ispezioni commissionate dal governo dei Savoia. In particolare, nel 1829 l’ingegner Francesco Mameli indicò, nella costituzione di società industriali, lo strumento giuridico per la ripresa delle attività estrattive in tutta la Sardegna. Dal 1840, approvata la legge sulle miniere, lo Stato stabilisce la sua proprietà inviolabile sui giacimenti dell’isola e favorisce le concessioni private per lo sfruttamento, stabilendo che la proprietà del suolo non implica la proprietà del sottosuolo che resta dello Stato. Nonostante l’urgenza della sua applicazione resterà non applicata, in Sardegna, sino al 1848. L’abbattimento dei privilegi e delle prassi locali venne introdotto attraverso l’opera riformatrice di Carlo Alberto re del regno sardo-piemontese, che favorì l’attività imprenditoriale di sfruttamento delle miniere sarde. In particolare nel 1850 la miniera di Monteponi passò nelle mani della “Società di Monteponi Regia Miniera presso Iglesias in Sardegna” con sede in Genova e presieduta dall’imprenditore Antonio Nicolay. La società privata poteva effettuare estese sperimentazioni e la realizzazione di tutte le infrastrutture che potessero permettergli di avviare la produzione e mantenere un livello adeguato di produttività, all’insegna dell’efficienza e dell’elevato livello organizzativo. Ciò portò ad uno sviluppo crescente in linea con gli investimenti e con la produttività raggiunta. Aumentò la specializzazione delle maestranza, ora impegnate in compiti di difficoltà sempre crescente e in opere di infrastrutturazione di grandi dimensioni per l’epoca: pozzi, laverie, fonderie, magazzini, impianti di carico-scarico ma anche sistemi viari (ferrovie e porti). A questo scopo furono iniziati gli scavi di nuove gallerie, venne realizzato ex novo un villaggio per i minatori e gli addetti ai servizi e inseriti nella catena di produzione nuovi macchinari e impianti, per il trattamento del minerale estratto. L’innovazione fu continua: furono introdotti i rilievi topografici che permettevano di progettare meglio i lavori di scavo e la facilitare la ricerca dei giacimenti oltre all’introduzione di innumerevoli nuove tecniche e tecnologie dell’arte minerarie. Nel 1865 a Buggerru furono scoperti giacimenti di calamine (miscele minerali di zinco) ad opera dell’ingegner Eyquem: negli stessi anni anche a Monteponi ne vennero individuati di consistenti. Si provvide alla costruzione di grandi forni di calcinazione della calamina che divenne uno dei prodotti più importanti della miniera, tanto che dal 1867, con l’acquisizione del “pozzo San Giorgio” (di proprietà francese) si estese la coltivazione del minerale al grande “pozzo Santa Barbara”.

Nel 1863 fu avviata la realizzazione del pozzo principale di estrazione denominato “pozzo Vittorio Emanuele II, la “laveria Nicolay” e la “laveria Villamarina” (1867) e, nel 1875, si portò a termine la realizzazione di una laveria meccanica. L’introduzione di argani funzionanti con macchine a vapore risale al 1869 e, qualche anno dopo, vennero introdotte anche le pompe a vapore per l’eliminazione dell’acqua dai pozzi, consentendo una espansione verticale degli stessi. Furono anni di sviluppo incessante, che sulla cresta dell’onda della rivoluzione industriale portò innovazioni tecnologiche di grande rilievo e migliorò sensibilmente le condizioni di lavoro delle maestranze impiegate nel sottosuolo. La dinamite facilitò l’espansione sia verticale che orizzontale degli scavi. La perforazione avveniva mediante perforatrici sperimentali ad aria compressa, azionate a vapore, il cui uso diffuso venne raggiunto solo cinquanta anni più tardi. Con l’espansione verticale degli scavi furono necessarie nuove strutture per il pompaggio dell’acqua: nel 1872 furono installate nuove pompe nel “pozzo Sella”. Per risolvere il grave problema delle infiltrazioni d’acqua fu costruita la “galleria Umberto I”. La galleria di scolo fu realizzata a partire dal 1880 e portata avanti per un tracciato complessivo di circa 4 km sino al 1889. Nel 1881 furono introdotte le perforatrici rotative ad acqua compressa, fu costruita una seconda laveria meccanica, la “laveria Sacchi” per il trattamento di minerali misti e il recupero dei fanghi argillosi (impiegati per fare tegole e mattoni per le costruzioni locali) dai bacini di decantazione. Da ricordare, tra le innumerevoli opere, la costruzione dell’acquedotto di Monteponi e l’acquisizione di una miniera di lignite nei pressi di Fontanamare, che garantirono alla miniera di Monteponi l’autonomia idrica e energetica. Tutte le infrastrutture e gli impianti per il trattamento del minerale incrementarono esponenzialmente la produttività della miniera che divenne in breve tempo una delle più efficienti e redditizie della Sardegna. Gli effetti economici si materializzarono nella costruzione di un ospedale e della palazzina direzionale indicata come “palazzina Bella Vista”. Nel 1883 viene introdotta l’illuminazione elettrica con lampade ad incandescenza, che consentirono alle laverie di essere illuminate elettricamente.

L’aumento della produzione mondiale di piombo e zinco produsse la caduta dei prezzi e portò alla crisi delle imprese più piccole a favore della concentrazione delle attività sui gruppi industriali più solidi economicamente, più innovativi e meglio organizzati (1886). Quasi contemporaneamente fu costruita un’importante linea ferroviaria che collegava Monteponi con la costa, chiamata “ferrovia Portovesme” in onore a Carlo Baudi di Vesme (letterato e senatore del Regno d’Italia, Cuneo 1809 – Torino 1877), perché consentiva l’imbarco di materiali per l’isola di San Pietro (Comune di  Carloforte). Nel 1887 a Monteponi fu attivata la “laveria Calamine” alla quale fu annessa, due anni dopo, una “laveria magnetica” per l’estrazione dei materiali ferrosi. Sul finire del ’900 la miniera di Monteponi (e l’omonima società che la gestiva) raggiunse importanti risultati anche grazie all’operato dell’ingegner Erminio Ferraris, che sperimentò efficienti sistemi per il trattamento dei minerali. Infatti nel 1893 fu realizzata la “laveria Mameli”, con una tecnologia ideata e brevettata dall’ingegner Ferraris e il cui uso si diffuse in tutta Europa. Ancora una crisi (1893-95) dovuta a una ulteriore caduta dei prezzi e nuove concentrazioni imprenditoriali. La ripresa fu caratterizzata dall’uso esteso dell’energia elettrica applicata dalle perforatrici all’accensione delle mine e, in misura sempre crescente, nell’attività metallurgica. Tra gli anni 1894-1907 con l’installazione di una fonderia elettrica si riuscirono a produrre grosse quantità di piombo e zinco. La crescita continua delle vie di comunicazione e di scalo permise di immaginare nuovi scenari di espansione della produzione, a questo scopo si costituì un grande impianto per la produzione di acido solforico.

Dal 1905 viene sperimentato il trattamento innovativo del minerale di zinco, per ottenere l’ossido, da parte di Francesco Sartori; il sistema di Sartori portò alla realizzazione di un impianto tra il 1914 e il 1917. Nel 1900 la Monteponi partecipò all’Esposizione Universale di Parigi e nel 1906 ricevette la medaglia d’oro dell’Esposizione Universale di Milano. Gli eventi della prima guerra mondiale (1915-18) produssero effetti contrastanti, tra la necessità di aumentare le produzioni di metalli per l’industria bellica e l’impossibilità di alimentare le imprese con nuovi e massicci investimenti privati. Le aspettative erano grandi anche perché proprio nel 1914 era entrata in funzione la centrale termoelettrica di Portovesme, per iniziativa della Società Elettrica Sarda. A partire dall’inizio degli anni ‘20 si sperimentò l’elettrolisi per aumentare la purezza dello zinco e sfruttare i giacimenti di minerale a basso tenore di zinco (giacimento di calamine di “Campo Pisano”): la produzione toccò i suoi massimi livelli che diminuì progressivamente solo nel periodo della seconda guerra mondiale per la mancanza dei materiali necessari alla produzione. L’impianto per l’elettrolisi (costruito nel triennio 1923-26 e rimasto in funzione, dopo diversi ammodernamenti, sino al 1983) sfruttava l’energia della centrale idroelettrica del Coghinas (Società Elettrica Sarda) in grado di fornire i 30GWh di energia necessari al suo funzionamento.

 


L’avvento della potenza elettrica su base industriale e la crescente disponibilità dovuta all’espansione delle reti e degli impianti portò una nuova ondata di innovazioni tecnologiche e soprattutto la maturazione delle tecnologie legate alle macchine elettriche e agli impianti di generazione e di trasmissione dell’energia elettrica. La nuova crisi del settore minerario della fine degli anni ’20 fu caratterizzata, controtendenza, da una espansione e diversificazione delle produzioni che portò nel 1931 all’attivazione della prima linea di produzione del cadmio in Italia. La guerra produsse la caduta rovinosa del sistema industriale che aveva guidato l’espansione economica del Sulcis-Iglesiente e dell’intera Sardegna per oltre un secolo, richiedendo nuove energie per la riattivazione dei processi e la riorganizzazione degli interventi. Grazie alla buona manutenzione e all’introduzione di nuovi macchinari, gli anni successivi al secondo conflitto mondiale portarono un incremento graduale delle produzioni che raggiunse il culmine negli anni tra il 1950-60, diventando uno dei più importanti in Europa per la produzione di blenda e galena argentifera. Infine dai primi anni settanta si cominciò a sentire la crisi: la miniera fu costretta a ridurre i cicli produttivi e a ridurre il personale, a causa di politiche dei costi. La miniera passò sotto il controllo statale. Intanto l’attività estrattiva cessava inesorabilmente e gli impianti e le strutture (villaggio e uffici) chiudevano i battenti e venivano abbandonati gradualmente a partire dal 1991 e fino alla completa cessazione di tutte le produzioni del distretto minerario nel 1998. Resta la testimonianza in numerosi edifici industriali di pregio, restaurati o in via di recupero, per fini turistici e di gestione della conoscenza (sale conferenza, scuole) e nella devastazione ambientale circostante testimoniata dalla “discarica dei Fanghi rossi” visibili a Ovest, dalla strada verso il mare.

 

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