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Territorio

I sudditi del dio rosso di Maria Grazia Serra

I sudditi del dio rosso (di Grazia Serra Sanna)

Ci sono libri che non si possono leggere tenendoli solo in prestito. Mentre li sfogli, senti che ti appartengono da prima di essere scritti e devono stare lì, sullo scaffale, pronti a soccorrerti se necessario, per tutte le volte che sai già andrai a cercare fra le pagine quelle parole scritte per te.

Così è "I sudditi del Dio Rosso", dell'iglesiente Grazia Serra Sanna, una penna divinamente ispirata, poetica, romantica, abile tessitrice di parole, una jana intenta al telaio d'oro degli antichi racconti di Villa di Chiesa, a metà strada fra storia e leggenda, come dice lei stessa nella prefazione.

È un romanzo di formazione, questo, con una splendida cornice etnografica perfettamente incastonata nella narrazione, che scorre veloce e limpida attraverso le vicende dei suoi personaggi, tutti perfettamente tratteggiati e coprotagonisti di un destino che si preannuncia difficile, segnato profondamente dalle convenzioni sociali,dai pregiudizi, dalla durezza del lavoro, ma anche scandito dalle feste, come il carnevale e la festa di Nostra Signora del Buoncammino.

Generosu è il personaggio cardine, ma sarebbe azzardato relegare a comparse tutti gli altri che si muovono con lui e attorno a lui. Col suo "sorriso da satiro" sembra una creatura del bosco, un tutt'uno con gli elementi naturali: la fonte, l'acqua del Rio Canonica, gli astori che volano alti e nidificano sugli spuntoni di roccia del Marganai.

Sulla piana di Montintru e lo sfondo del Cuccuru Contu, il ragazzo parla con gli usignoli e sente il richiamo dei tordi, sdraiato sul fianco del monte che appartiene ad Aréga e Laóu, suona lo zuffolo dei suoi sogni più arditi.

L'amicizia tra Generosu e il giovane servo pastore Tuniné ha a tratti i risvolti romantici e trasognanti dei protagonisti de "L'amico ritrovato" di Fred Uhlman. Un legame molto forte che si sviluppa nel concetto di attesa: ogni giornata è vissuta nell'attesa spasmodica dell'incontro con l'amico. Da qui la lezione di Generosu di ascendenza leopardiana: la gioia si realizza nell'attesa del piacere.

A volte sembra di essere dentro il mito di Orfeo ed Euridice, a volte nella prima ecloga di Virgilio dove Titiro-Generosu se ne sta all'ombra di una sughera a fantasticare. Ma soprattutto, ogni personaggio calca da comprimario la scena, protagonista assoluto dell'episodio narrato e, insieme, dell'intera storia.

C'è Aréga, "sa merzej", la padrona: vive chiusa in una sorta di prigione dorata dove al lettore è chiaro sin da subito che ha congelato i propri sentimenti per qualcosa di misterioso, un nodo narrativo che si scioglierà solo nelle pagine finali.

Laóu, tanto giovane e aitante quanto dedito al vizio del bere e delle donne, la cui personalità controversa, poliedrica ne fa un personaggio aperto, genuino, che nella pubblica piazza, per difendere la dignità di Veronica, è capace di smontare pezzo per pezzo tutte le ipocrisie di una comunità di contadini e massaias, chiamando per nome i loro vizi, tenuti nascosti sotto la falsa cortina di perbenismo del ceto sociale.

E poi c'è Veronica, figlia di un servo e di una ricca caduta in disgrazia, avvenente nella sua povertà, perennemente scarmigliata e scalza, vestita sempre della gonnella rossa che la contraddistingue, serva, eppure incapace di servire perché ha ereditato dal sangue di sua madre l'attitudine ad essere servita.

Chi legge di lei non può non amarne la forza e la debolezza che coesistono perfettamente nel suo schivare la perfidia di una comunità che l'ha già condannata dalla nascita al suo destino di reietta ed esclusa. È lo specchio di una società arcaica che stigmatizza e condanna imprimendo il marchio sociale: neppure la morte interviene a pareggiare i conti restituendo quello che la vita ha sottratto.

La scrittrice traccia con questo libro una sorta di profilo genetico dell'Iglesiente, vizi e virtù descritti con la leggerezza che la letteratura consente e sa regalare. Tutto ha il retrogusto dolce-amaro e un po' nostalgico di un tempo che è stato e che resterà indelebile in ogni pietra, in ogni strada, in ogni rovina di un'Iglesias che non c'è più, ma che sente ancora prepotentemente viva chi non si accontenta di essere un passante distratto e guarda con disincanto ai dettagli.

Non è finito come mi sarei aspettata e, all'ultima pagina, avrei voluto ancora sfogliare per leggere quell'epilogo che avrei desiderato, come capita nella vita vera, e che non è arrivato. Per la scrittrice avrei tante domande, che non potranno essere soddisfatte perché ci ha lasciato prematuramente rendendo, se possibile, ancora più di valore quest'opera di alta letteratura che dovrebbe essere diffusa, letta, commentata, più e meglio di altre che circolano senza meriti.

 

Grazia Serra Sanna (Iglesias, 19 ottobre 1915 – 9 febbraio 2000), figlia dell'allora tabaccaio di piazza Pichi Salvatore originario di Serrenti e di Mariangela originaria di Nuoro. Pubblica nel 1966 il romanzo  “Il regno dei Pintadu” e nel 1973 “I sudditi del dio rosso", quest'ultimo ambientato nella sua città natale, con densi spunti autobiografici e ricordi d'infanzia.

Biografie di Grazia Serra, Foiso Fois e Remo Branca in “Incontri iglesienti, Edizioni Città di Iglesias (Memoria, Identità, Futuro), Iglesias 2009

 

 

Link esterni

   L’altra “Grassiedda”. Grazia Sanna Serra, scrittrice di Iglesias di Laura Candiani

 

Leggi anche

   Mente e Natura a cura di Mauro Ennas

   La parola crea il mondo – nel bene e nel male a cura di Arnaldo Scarpa

 

 

 

 

Giorgia Loi

(Iglesias, classe 1972)

Ha conseguito la laurea in Lettere Classiche presso l’Università degli Studi di Cagliari nel 1999 con una tesi in filologia latina. Nel 2010 ha pubblicato “Lettera a Helena” con la casa editrice Il filo. Nel 2014 pubblica il romanzo storico “Cristalli di quarzo” con l’editore Il Ciliegio; l’opera ottiene una Segnalazione al Premio “Il Paese delle donne” (Roma) nel novembre 2014. Nel settembre 2017 pubblica con l’editore Il Ciliegio il romanzo di formazione “Fill’e fortuna”.

 

Nell’ottobre 2018 ottiene il 1° Premio Letterario Internazionale Città di Sassari con la poesia inedita “Ballata di miniera”.

 

Nel luglio 2020 pubblica con l’editore Il Ciliegio il giallo storico “Il fiore selvatico del Guilcer”.

 

Attualmente insegna letteratura italiana e storia nella scuola superiore.

 

Recensione libri

In questa sezione verranno pubblicate recensioni di libri di autori e autrici locali o su argomenti legati al territorio iglesiente.

 

Recensione libri 

   I sudditi del dio rosso di Maria Grazia Serra a cura di Giorgia Loi

 

 

 

 

 

 

Arte e impegno

Mauro Ennas intervista Massimo MAP Piga per il Blog collettivo iglesiente.

Personaggio eclettico e indipendente, dalla forte personalità. È sempre riuscito a tracciare il suo percorso individuale seguendo le proprie passioni e la propria visione del mondo, senza compromessi ma con pazienza, talento e indiscussa simpatia: dal greco sympátheia, deriva da páthos col prefisso syn-  ‘con sentimento’. Le sue scelte hanno questa costante il “sentimento”, l'affetto per i colori, rossoblu, sia dell'Iglesias che del Cagliari, l'affetto dimostrato per i pazienti che ha aiutato con costanza, pazienza e competenza, l'affetto smisurato per l'arte pittorica e per la sua città. A volte il talento non basta, sia nello sport, come nella professione o nell'arte, per evidenziare la propria personalità, senza esibizionismi, serve l'impegno e il 'sentimento', quel sentimento puro e disinteressato che l'ha visto protagonista di un'operazione culturale di grande valore civile e sociale prima che artistica e culturale. Massimo Piga, in arte MAP, ha superato se stesso, donando alla città delle coloratissime opere murali, coinvolgendo gli allievi delle scuole, in un quartiere popolare come quello di Serra Perdosa a Iglesias e non solo. Che dire ancora. Ce lo dirà lui stesso in questa breve intervista asincrona.

La ringrazio, anche a nome del Blog collettivo iglesiente, per avere accettato di rispondere a questa intervista e per il suo impegno costante nella diffusione di suggestioni artistiche, mirate alla crescita culturale e civile delle popolazioni delle nostre comunità e del territorio del sud-ovest sardo.

Grazie per essersi reso disponibile!

 

Innanzitutto potrebbe cercare di ricostruire com'è nato il suo impegno? Ci parli di lei stimolando i lettori con qualche suggestione e qualche ricordo.

Mio babbo aveva la buona abitudine di conservare tutti i miei quaderni delle elementari, anni '70, e sfogliando le loro pagine ho scoperto che già da allora alternavo addizioni, sottrazioni, pensierini a scarabocchi di ogni genere.

Amavo soprattutto disegnare improbabili omini e auto. Spesso cercavo di ricopiare in modo infimo i personaggi del grande Benito Jacovitti di cui sono sempre stato innamorato. È stato lui, infatti, il mio primo ispiratore che con quei personaggi buffi e super colorati hanno acceso in me la passione per le vignette che tutt’oggi è il mio divertimento preferito.

Anche la maggior parte dei fumetti attiravano la mia attenzione ma erano le classiche vignette, specie quelle satiriche, le mie preferite in assoluto.

Jacovitti e Mordillo prima, Forattini e Vauro poi. La satira e i disegni di quest’ultimo sono quelli che mi hanno ispirato maggiormente negli ultimi anni.

Affinando la tecnica da disegnatore provetto ho preso coraggio e ho spedito le mie tavole a vari giornali, riuscendo a collaborare con piccole testate regionali e anche nazionali come La Settimana Enigmistica e Domenica Quiz.

La sua passione per lo sport (ricordiamo le sue vignette a carattere satirico e non solo) e per l'arte (le sue opere coloratissime spesso ispirate alla nostra città e alla Sardegna), come si sono evolute e quali sono le conclusioni che è riuscito a raggiungere? Cosa ha creato in lei quel 'sentimento' che trabocca dappertutto nelle sue opere e nel suo carattere, specchio di una saggia ed equilibrata pacatezza nell'approccio alla vita. Vuole condividere con noi un suo messaggio in tempi difficili come questi?

La pubblicazione della storia del Cagliari Calcio a vignette, oltre ad essere stata una soddisfazione personale, mi ha dato modo di conoscere grandi persone che hanno fatto la storia del Cagliari, come Gianfranco Zola, Gianfranco Matteoli e Vittorio Pusceddu, idoli calcistici della mia squadra del cuore.

Un buon riscontro ha avuto anche la pubblicazione della storia a fumetti sulla tormentata vita del più grande calciatore di sempre, Diego Maradona.

In seguito sono arrivate anche collaborazioni con l’emittente sarda Sardegna uno, in cui venivano presentate le mie vignette sportive nei programmi di Pupo Gorini prima e Bruno Corda poi.

I miei personaggi vignettistici si sono “evoluti” in forme più surreali e spontanee, tanto da provare a riprodurli su tela, con una fantasia e gamma di colori che da subito sono riuscito a conciliare.

Arrivano quindi le prime mostre in tutta la Sardegna e nel 2012 riesco a vincere il primo premio nell’estemporanea “Paesaggi e Immagini” città di Gonnesa.

I miei “nuovi” disegni piacciono e sono riprodotti su t-shirt, magneti, e oggettistica varia che in tanti mi commissionano per un regalino originale.

Diffondere bellezza e concetti forti e profondi non è facile ma lei è riuscito a farlo. Cosa vorrebbe sottolineare, sommessamente, ai cittadini e alle cittadine della nostra comunità. 

Da alcuni anni la mia attenzione si è spostata anche all’arte dei murales.

Nel 2015 improvviso il mio primo lavoro sulle pareti della casa popolare dei miei genitori, nel quartiere di Serra Perdosa Vecchia, dove ho vissuto per 35 anni.

È stato cosi divertente e anche apprezzato dai passanti incuriositi che ho continuato ad “imbrattare” i muri di questo vecchio quartiere, spesso e volentieri dimenticato dalle varie amministrazioni.

Tuttora sono una decina i lavori che si possono ammirare, non tutti sono ispirati a temi sociali o alla nostra città.

Voglio sottolineare che a parte la Società Operaia di Mutuo Soccorso di Iglesias che mi ha sovvenzionato alcuni lavori, ho sempre realizzato il resto a mie spese.

La soddisfazione di vedere le opere prendere forma e colore, vederle apprezzate da tante persone che si fermano e ti fanno i complimenti è davvero qualcosa di grande.

Quando affronti temi sociali, tipo l’emigrazione, devi mettere in preventivo che tutti condividono certi messaggi, ma finora, a parte sporadici casi, i miei lavori sono sempre stati rispettati e mai bersaglio di sfregi come talvolta capita.

Come sempre, continuo a dire che disegno solo per puro divertimento e piacere personale. È questo il mio modo di rilassarmi; se poi sono riuscito a diffondere bellezza e qualche buon messaggio è davvero un grande motivo d’orgoglio.

Cosa vorrebbe che rimanesse di questa breve conversazione, quali semplici consigli darebbe ai giovani e alle giovani delle nostre comunità per spingere il cambiamento? 

In città abbiamo molti ragazzi capaci e pieni di idee, e spero che l’amministrazione comunale o le associazioni siano più attente a tutte le forme d’arte e, in questo caso specifico, ai murales.

È stato un piacere e un onore rispondere a questa breve intervista e il consiglio che posso dare a chi vuole divertirsi e magari emergere in questo mondo dell’arte, di non avere remore di nessun tipo e avere il coraggio di “buttarsi” ed esprimere le proprie idee senza preoccuparsi dei giudizi altrui.

Parola d’ordine: provare e agire.

 

  

Grazie e buon lavoro.

 

 

Le interviste

     Archivi digitali Mauro Ennas intervista Daniela Aretino Dessì

     Una vita per la Pace Mauro Ennas intervista Teresa Piras

     Il disarmo è un'opzione possibile? Mauro Ennas intervista Cinzia Guaita

    Scuola e Libertà Arianna Manca intervista Enrica Ena

    Letteratura e impegno Mauro Ennas intervista Riccardo Massole 

    Il progetto WarFree Mauro Ennas intervista Arnaldo e Stefano Scarpa 

    Educare alla creatività Mauro Ennas intervista Christian Castangia 

    Invito alla lettura Arianna Manca intervista Federica Musu 

    Innovazione tecnologica territoriale Mauro Ennas intervista Giampaolo Era

    Argonautilus e il suo impegno per il territorio Mauro Ennas intervista Eleonora Carta 

    La riqualificazione del Villaggio Minerario Asproni Arianna Manca intervista Annalisa Uccella

 

Massimo MAP Piga

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Massimo MAP Piga

(Iglesias, classe 1966)

Massimo Piga in arte MAP si avvicina da autodidatta al mondo dell’arte in età molto giovane, il suo umorismo e la sua autoironia caratterizzano le sue prime esperienze artistiche di vignettista. Inizia così il suo percorso artistico.
Collabora dal 1997 al 2009 con diverse testate giornalistiche, tra le più note a livello regionale, pubblicando vignette inerenti il mondo del lavoro, cronaca e sport.
Nel 2003 pubblica il libro “Da rombo di tuono a Magic Box” breve storia del Cagliari Calcio a vignette. Nel 2009 pubblica il libro: “Io sono el Pibe”. Divertente storia a vignette sulla turbolenta vita di Diego Maradona. Nel 2019 pubblica “Alè Casteddu”, nuova edizione della storia del Cagliari a fumetti.

L'incontro di altre culture, soprattutto quelle del Sud America attraverso i suoi tanti viaggi, lo portano ad accrescere la sua ecletticità e curiosità verso tutto ciò che incontra, la sua arte oggi: un mondo di colori e forme in continua evoluzione.

Dal 2010, intraprende un nuovo percorso artistico evolutivo con la trasposizione dei suoi personaggi vignettistici su tela, partecipando a varie mostre tra Iglesias Cagliari, Villasimius, Monserrato, Sanluri e nel giugno del 2012 vince il primo premio nell'estemporanea "Paesaggi e Immagini " di Gonnesa.
Hanno scritto: "C’era una volta"... una rivisitazione delle favole classiche: Pinocchio, Biancaneve, Cenerentola e altre hanno ispirato l’artista nel realizzare alcune delle sue opere. Mosso dal permanere nel tempo di certi archetipi, figure chiave senza tempo, ritrovate in culture e luoghi diversi. Ha pensato così di riproporle secondo il suo stile tramutando le parole in immagini. Non solo magia raccontata e ascoltata, ma soprattutto magia interpretata dagli occhi di chi guarda… bambini e adulti".  
"Emozioni di note su tela"... sono invece quelle ispirate ad uno dei più grandi autori della musica italiana: Fabrizio De Andrè.

Dal 2015 colora con i suoi murales il quartiere di Iglesias, Serra Perdosa, dove è cresciuto.

 

Blog collettivo iglesiente

  

Passato, presente e futuro delle comunità marginali

Mauro Ennas intervista Marina Muscas per il Blog collettivo iglesiente.

Da sempre attiva in vari ambiti, dall'istruzione alla politica cittadina, impegnata in prima linea sulle tematiche del recupero urbano, nella ricostruzione dei saperi territoriali, nella costruzione di collaborazioni, nella divulgazione e nella valorizzazione storica e culturale. Una vita dedicata non solo all'insegnamento ma anche alla diffusione di conoscenze e pratiche, finalizzate alla consapevolezza ambientale e alla pace. Tra queste esperienze la valorizzazione delle Scuole di Miniera con l'associazione “Scu. Di. Mi.”, in collaborazione con storici, storiche ed esperte/i del territorio, “Il Giardino delle Biodiversità” con il suo mercato dei prodotti di prossimità e tante altre iniziative di pace e cultura territoriale.

Ci piacerebbe che lei ci spiegasse quali sono gli elementi comuni della sua esperienza pluriennale, qual è il messaggio che vorrebbe passasse nella popolazione delle nostre comunità. Quali pratiche dovrebbero essere assorbite e fatte proprie dalle amministrazioni locali per potenziare la consapevolezza e l'intraprendenza dei cittadini e delle cittadine?

La ringrazio, anche a nome del Blog collettivo iglesiente, per avere accettato di rispondere a questa intervista e per il suo impegno costante, a tutto tondo, nel “Comitato per la riconversione (dell'industria bellica) RWM”, con “Il Giardino delle Biodiversità”, nel “Laboratorio Museo Andaus a scola” di Monteponi con “Scu. Di. Mi.” e in altre associazioni del territorio. Le siamo grati/e per il suo impegno nella diffusione della partecipazione civile a favore della cultura della Pace e dell'ambientalismo, attraverso azioni concrete, mirate alla crescita delle nostre comunità e del territorio del Sud Ovest sardo.

Grazie per essersi resa disponibile!

Io ringrazio voi per l’opportunità che mi date di esprimere alcune considerazioni e per il vostro impegno.

 

Innanzitutto potrebbe cercare di ricostruire com'è nato il suo impegno per le tematiche civili, sociali e di cura dell'ambiente? Quali elementi della sua formazione hanno influito nelle sue scelte di vita e di impegno? Ci parli di lei stimolando i lettori con qualche suggestione.

 

Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.

Cedi la strada agli alberi Franco Arminio paesologo

 

L'attenzione è la forma più rara e più pura della generosità.

Simone Weil filosofa

 

Sono nata in una famiglia del popolo di una grande cultura morale che ha conosciuto la povertà, la grande fatica di essere minatori nelle miniere di carbone e in quelle metallifere, con i segni nel carattere e nel fisico della durezza del lavoro, nel respiro affannoso della silicosi, nel piede schiacciato da una frana. Sono nata da un padre di origine contadina, una persona sobria, solitaria e di poche parole, con solidi principi, che aveva dentro i valori della terra e che diceva che un popolo che non si coltiva il suo cibo e in modo naturale, non ha futuro.

Un uomo che ha fatto il minatore per forza, per campare, per mantenere la famiglia. Come migliaia di altre persone sradicate da una cultura millenaria contadina e pastorale per scavare minerale. È successo qui come altrove, ieri e oggi. Parte di una generazione di uomini e donne cresciuti tra rinunce, fatiche, guerre che ha voluto che i propri figli non parlassero il sardo e andassero a scuola per allontanarli dalla miniera.

Ho vissuto il dopoguerra sardo difficile, denso di speranza ma incapace di reagire all’invasione e alle scelte che altri hanno fatto sulle nostre teste, inseguendo miti di modernità e di progresso che spesso ci hanno solo avvilito. Si cresceva con un senso profondo del dovere, della responsabilità, del servizio. Le parole erano poche, le difficoltà relazionali tante, ma tanti erano così e ci si ritrovava provando a riscattarsi collettivamente. Idee schematiche, anche ottocentesche, ma anche tanti semi fertili di nuova vita.

La miniera l’ho vissuta e ne avevo il sapore delle cose belle di bambina libera che giocava tra le discariche, che la scuola nel bosco la viveva tutti i giorni, che conosceva la comunità educante e di mutuo aiuto, ma anche la durezza e i silenzi di un padre segnato da una guerra che gli aveva tolto sette anni di vita e dato dolore, ma anche un pensiero libero da tanti pregiudizi e ispiratore di pace.

Sono stata una ragazzina complicata, che come tanti altri vestivano di roba americana e foderavano tacchi del calzaturificio nelle sere con tutta la famiglia; chiusa nei suoi silenzi e nelle sue fantasie, che ha trovato nella scuola un ambiente socializzante per dare ragioni alle proprie difficoltà, una cultura del ‘68 portata da professori giovani militanti, preparatissimi, umani, collaborativi. E scorci di una pedagogia del popolo da Mario Lodi a Don Lorenzo Milani. Sono cresciuta comunque come una persona molto sensibile, anche per questo contesto, e quindi diciamo che i grandi temi delle difficoltà del mondo e delle sofferenze delle persone mi hanno attirato da subito, volevo fare l'assistente sociale in Africa, volevo andare ad aiutare le persone e quindi la politica (come impegno e responsabilità civile di ciascuno di noi) mi ha convolto da giovanissima, e anche a scuola sono diventata una che, nonostante la timidezza, organizzava e partecipava in modo diretto.

Insieme a tanti ho partecipato alle serate in dei muretti di piazza Sella dove ritrovarsi, sentirsi vivi e raccontarsi nella voglia di fuggire dal quotidiano e trovare modo di raggiungere grandi ideali. Ho trascorso serate intere in stanze dense di fumo e di operai sfruttati e padroni da sconfiggere in una Lotta quasi Continua; e poesie di cantautori cantate sottovoce che esprimevano il nostro disagio, la nostra malinconia, la paura e la voglia rivoluzionaria di essere felici insieme.

Oggi mi sento di dire che allora abbiamo anche fatto tanti errori, abbiamo cercato il cambiamento soprattutto fuori da noi e abbiamo cercato di resistere, ma con difficoltà, in una povera e discutibile democrazia e in un consumismo devastante. Abbiamo portato, con milioni di persone nel mondo, i temi del nostro rapporto con l’ambiente, della nostra eccessiva impronta ecologica già dagli anni ottanta, ma dovevamo parlare di meno e agire di più nelle scelte individuali e collettive.

La miniera l’ho conosciuta poi come insegnante nelle frazioni minerarie (Nuraxi Figus, Nebida, Bindua) dove sono andata alle prime armi come maestra e lì ho potuto recepire e vedere nei segni tangibili una cultura che forse nei millenni ha agevolato una concezione dell’ambiente, e del territorio profondamente errata che considera la terra estranea a noi stessi, da forare, svuotare e invadere di discariche, residui tossici, inquinanti; che considera il paesaggio da deforestare e riforestare senza identità naturalistica. Una cultura che ha considerato l’ambiente come estraneo da noi, in una visione solo utilitaristica e predatoria delle sue risorse. E noi stessi siamo stati considerati da spremere e buttare via. Ma non ho visto solo le rovine e le difficoltà, ma anche una progettualità ancora embrionale, ma carica di speranza e anche una serie di transizioni realizzate prevalentemente da donne e da una natura che si riprende i suoi spazi.

Sono stata un’insegnante, una maestra molto impegnata in un mestiere bellissimo e importante che deve essere fatto con molta professionalità, umanità, umiltà. Ho così avuto il privilegio di imparare tanto dalle bambine e dai bambini, dalla loro innocenza, dalla loro creatività e richiesta di coerenza. Ho iniziato ad insegnare in una stagione di forte rinnovamento da una scuola classista e borghese (rappresentata così bene in "Lettera ad una professoressa" della scuola di Barbiana di Don Milani).

Per anni mi sono occupata di progettazione di sistema, di progetti educativi che ponessero la scuola all’interno del contesto più generale, progetti di ricerca di una pedagogia della vita affascinata dai popoli indigeni, dalla Sardegna più nascosta e primitiva, dalla natura.

È stato il periodo dei moduli, del lavoro collegiale, del coinvolgimento dei genitori nella gestione democratica, del grande programma di formazione capillare con attività laboratoriali dove ti confrontavi e crescevi con tutte/i. La mia è stata una ricerca continua per migliorare gli strumenti pedagogici e didattici e anche psicologici in mano agli insegnanti. Era la scuola dell’autonomia che lasciava ampi spazi alla sperimentazione. E così abbiamo progettato per e con il territorio, con tanti percorsi integrati e collegiali con l’obiettivo di prenderci cura di ogni singolo bambino cercando di non medicalizzare le difficoltà e le diversità, ma affrontarle con gli strumenti pedagogici, valorizzandole. Abbiamo avvicinato la scuola dell’infanzia alle politiche di prevenzione precoce della dispersione scolastica portando in Sardegna importanti esperienze (da Bortolato, alla Lucangeli, agli studi fonologici).

Negli anni, gli approfondimenti personali e le mie relazioni nel territorio con varie associazioni hanno rafforzato in me l’interesse e la priorità da dare ad alcune tematiche, centrali, quali appunto la pace, l’ambientalismo e le relazioni con il presente, il passato, il futuro nella costruzione della nostra comunità.

Negli ultimi anni ho cercato di ribaltare l’abbandono e il pensiero depressivo spesso presenti con la ricerca della bellezza, della grandezza, della vita che questi nostri ambienti avevano nascosti, cercandole ogni giorno con i bambini e la bambine nelle piccole cose, nel visibile e nell’invisibile, nella conformazione delle nuvole come nella forma armoniosa di un albero, nell’azione instancabile di un lombrico, nella stupefacente bellezza di un fiore che sboccia, nella meraviglia che poteva nascere nel volto di un bambino nel vedere una farfalla venire alla luce, con tante trasformazioni, da un bruco.

La sua passione per le questioni ambientali è una passione antica, come si è evoluta e quali sono le conclusioni che è riuscita a raggiungere

Teresa (Piras) mi ha regalato tanti anni fa il libretto “L’orto dei bambini” di Capra, il teorico della fisica quantistica che tanto bene ha spiegato nel suo libro “Il tao della fisica”, come la fisica moderna sia arrivata ad alcune conclusioni simili a quelle dei popoli antichi in particolare dell’oriente, che sapevano immergersi nei segreti del cosmo.

Quel libro spiegava con parole semplicissime la circolarità della natura e dei cicli della vita: I ritmi, le stagioni, le reti ecologiche, chimiche, fisiche, la potenza energetica del sole che l’albero è riuscito a catturale per farne cibo per tutti noi. Un sapere connesso e complesso. Il concetto basilare della vita opposto all’economia lineare che abbiamo creato. Da allora ho realizzato, (con l’aiuto importante di mio marito Alberto) decine di orti, con i bambini protagonisti, che zappavano, mettevano la paglia, seminavano, curavano le piantine e donavano loro l’acqua, raccoglievano i frutti, allevavano i lombrichi, spiegavano ai genitori il valore di questa loro esperienza, desideravano da grandi di prendersi cura della terra e anche diventare contadini ed è molto bello che per alcuni di loro sia stata l’esperienza più importante del loro percorso scolastico nella scuola primaria

Ma in questi ultimi anni quel libretto “L’orto dei bambini” ci ha svelato altri segreti anche grazie a prof. Massimo Lumini: il filo spezzato con la natura della nostra cultura, economia, scienza, letteratura, matematica che ha generato una dissociazione da ciò che abbiamo chiamato ambiente, qualcosa che abbiamo considerato al di fuori e al di sotto di noi. E così l’ambiente l’abbiamo inquinato, sfruttato in un sistema predatorio orientato solo al profitto, all’iperproduzione per l’iperconsumo, alla competizione, creando un’economia senza etica, una tecnologia senza anima e una cultura cieca. E una grande sofferenza in tutti gli ecosistemi compreso quello umano, con tanta povertà materiale e spirituale.

Quel filo spezzato è stato però ricucito da alcuni pensatori ribelli, menti affascinanti: Leonardo, Klee, Munari, Mancuso, Capra e tanti altri. Li abbiamo trovati a scuola e nella nostra attività culturale. E ci hanno ispirato nella nostra quotidianità perché un’economia che crea (benessere, lavoro, relazioni) non può nascerà senza una cultura e una scuola che crea.

Perché tra l’altro non abbiamo solo un’emergenza climatica, ambientale, sociale, occupazionale, ma anche un’emergenza educativa e culturale.

Mi dice mia figlia che il fiore non chiede permesso per sbocciare in tutta la sua bellezza! E invece noi abbiamo migliaia di ragazzi e ragazze che non riescono a sbocciare, spesso chiusi in se stessi, schiavi di surrogati di felicità e socialità, analfabeti emotivamente e nell’uso delle mani. Negli ultimi anni di insegnamento con Elisabetta, Patrizia, Ombretta e tante altre abbiamo lavorato tanto per creare una scuola produttiva e di senso e immergerci, con le nostre classi, nello stupore della vita convinte che saranno sicuramente le nuove generazioni a trovare le soluzioni per essere una specie che si rigenera e crea una nuova civiltà.

Dai laboratori sulla nostra flora e fauna, sul nostro cibo sano e buono, sugli orti sinergici, sugli orti spirituali, sull’essere bionieri, sulla grandezza del lombrico, siamo cresciuti insieme alunni, maestre, genitori, contadini, compagni di strada e abbiamo fatto circolare saperi, sapori, rispetto per tutti gli esseri viventi, amore e gioia.

E oggi che sono andata in pensione continuo presso “I Giardini della Biodiversità” ad occuparmi di queste cose con tante/i compagne/i di viaggio. Non basta cambiare la fonte d’energia, non basta fare la raccolta differenziata, occorre creare centinaia di esperienze di democrazia di prossimità dove riappropriarci del nostro rapporto con gli elementi essenziali della vita e trovare gioia nel costruirli, curarli e apprezzarli insieme.

Mi sono comunque convinta, nella mia esperienza, che sia necessario superare espressioni come ambientalismo che creano categorie di pensiero e pratiche sociali e culturali troppo ristrette. Credo che l’esperienza umana su questa terra in particolare nella nostra più recente civiltà occidentale abbia creato una dissociazione profonda con il senso e i presupposti della vita. Io m’incanto vedendo la poesia della natura, la sua bellezza, la sua forza, la sua capacità di governarsi producendo i presupposti della vita anche in maniera democratica. Occorre recuperare un rapporto sano e non parassitario con gli altri esseri viventi. Occorre costruire insieme un pensiero rigenerativo. E l’ambientalismo non può esprimere tutto ciò. Quello che dobbiamo coltivare, far esplodere, è la vita, l’amore per la vita in qualunque forma si manifesti nella natura, nella terra, in noi. Sentirci parte di un unico corpo vitale. E solo la fraternità, la compassione, la reciproca umanità, l’amore potranno dare anima e senso a questo essere oggi su questa terra. Solo la nonviolenza nelle relazioni reciproche e nelle relazioni con la natura potranno farci vivere un salto di civiltà. È una ricerca profonda, anche piena di contraddizioni, ma che ci apre a tutte/i.

Quali sono le sue influenze culturali nella costruzione di una cultura di pace?

Una madre accogliente e dolce, il mio carattere anche difficile e schivo, immersa nel mondo delle idee, dei progetti, la mia timidezza mi hanno portato a maturare grandi capacità di ascolto e ricerca, di rappresentanza di istanze collettive, quindi a non cercare il primo posto, a lavorare per la collettività, a saper rappresentare le esigenze di tante persone. Costruire progetti collettivi è stato per me un modo di “vedere oltre”, di organizzare la realtà secondo una visione, un desiderio, una finalità ideale per poi dare corpo alle azioni che potevano concretizzare questa idea che diventava così via via ispirazione e aspirazione collettiva. Magari realizzavi (come comunità, come scuola, come associazione, come gruppo, come singolo) solo una parte di ciò che desideravi ma così le piccole azioni quotidiane si riempivano di senso e di forza perché orientate verso mete alte e profonde. Ho avuto relazioni privilegiate con centinai di persone con cui abbracciavo voglie e sfide di esserci, di esprimersi con libertà, di contare e costruire realizzando anche difficili modifiche nel senso del vivere quotidiano o nella realtà comune. Abbiamo così dato il cuore al desiderio di un mondo diverso e più giusto. E in queste relazioni costruttive è maturata la cultura della pace.

Ho collaborato, non senza difficoltà, con tante “prime donne” maschi, ma nella seconda parte della mia vita ho scoperto l’apporto vitale del femminile e il suo centrale contributo in una cultura rigenerativa e pacifica. E sto scoprendo il femminile nella storia di società pacifiche, giuste, egualitarie come quella emersa dagli studi archeologici di Marija Gimbutas. E oggi le donne stanno dando un apporto essenziale nel rinnovamento. Ciò mi ha fatto sentire una donna che ha attraversato questi anni in modo profondo cercando con umiltà di sostenere progetti e posizioni, spesso minoritarie, legate a grandi ideali sempre rivolti al riscatto e al protagonismo degli ultimi fossero piccoli alunni, minatori o cernitrici, esseri viventi come anche gli alberi esclusi dalla nostra cultura ignorante e antropocentrica.

La cultura della pace mi viene quindi dalla mia esperienza familiare, sociale, culturale e dalla mia formazione pedagogica. Mi viene dalle mie maternità e dalla relazione vitale con le mie figlie. È stata poi rafforzata da incontri formativi nei percorsi del "Centro Sperimentazione Autosviluppo" che mi ha fatto conoscere il movimento nonviolento, dalle partecipazione alle nostre iniziative come “Scuola Civica di Politica - La Città in Comune” con l’antropologo Luca Navarra e la lettura collettiva del libro "Contro l’odio" premio della Pace dei librai tedeschi del 2016, alla partecipazione ad alcune incontri online organizzati da Enrica Ena con l’esperienza “Il cambiamento nasce da dentro”. Sono stati anche gli studi di mia figlia Giulia ad accrescere la mia consapevolezza del valore di esperienze di riconciliazione come quella di Nelson Mandela nel Sudafrica.

Nella ricerca di luoghi e simboli collettivi nella nostra realtà quotidiana, il colle del Buon Cammino è diventato il nostro riferimento costante nel mese della pace, di San Francesco e di Gandhi, per ritrovarci insieme in centinaia tra bambine, bambini, genitori, insegnanti e ricercare il senso di una comunità che si confronta con la risoluzione nonviolenta dei conflitti fuori e dentro di sé. Per dieci anni ho organizzato la Marcia della pace e della fratellanza fra persone, culture, popoli al Buon Cammino per l’ottobrata seguendo il pensiero di Maria Montessori che diceva che “compito dei politici è difendere la pace, compito degli educatori è costruirla”.   E questo percorso rende doverosa la mia partecipazione al Comitato per la riconversione della RWM, convinta che la mia e la nostra coscienza collettiva non può permettere che si lavori per costruire armi e bombe per la guerra e che sono anche le industrie delle armi ad alimentare la guerra e noi non possiamo tenerci questa responsabilità. La comunità tutta, il potere decisionale, politico ed economico può orientare altre scelte nel riconvertire il nostro territorio a lavori buoni e che tutti possano svolgere senza vergogna. Io credo che ciò darebbe a tutti noi una forza enorme costruttrice di energie, risorse, coraggio, benessere, fiducia nel domani senza guerre e sofferenze inutili, ma anche più giusto nel rispondere alle esigenze di base di tutti, per esempio ad avere un lavoro. Ma occorre ribellarsi e scandalizzarsi, occorre non essere conniventi con una cultura di morte e con una potenza economica, quella bellica, che condiziona tutto. Occorre dire no alla guerra, costruendo la pace. Dovevamo farlo anche per la situazione in Ucraina e tutte le altre guerre e dobbiamo continuare a farlo ogni giorno, non facendoci schiacciare da un pensiero unico devastante e primitivo. Non è facile, ma è l’unica strada.

Ma le scelte dall’alto non arrivano e allora dal basso sosteniamo esperienze come WarFree!

Lei, insieme a poche altre persone (quasi esclusivamente donne) è riuscita a comprendere profondamente che alle manifestazioni deve seguire un progetto concreto di condivisione ed espansione dei saperi e delle pratiche quotidiane. Come pensa possa essere espanso il progetto che avete attivato all'interno della rete delle associazioni, con il “Mercatino delle biodiversità”? È possibile individuare altri spazi cittadini e collaborazioni per estendere il vostro progetto? Come pensate, se ci pensate, a una diffusione capillare delle pratiche ambientali e della Pace nelle nostre comunità?

Ho sempre avuto una visione di rete culturale e di sistema e tutte le iniziative anche come insegnante hanno collocato l’azione pedagogica e le finalità della scuola all’interno degli obiettivi della società più ampia. L’esperienza da assessora, anche se breve, è stata un grande privilegio che ha esteso il mio orizzonte (anche se io sono convinta che la politica è in mano a tutte/i e tutte/i hanno la responsabilità di proporre e partecipare alla gestione dei beni pubblici). Da allora, proposta da quattro donne, è nata l’esperienza della “Scuola Civica di Politica - La Città in Comune”, con le sue numerosissime esperienze formative, ma poi abbiamo voluto fare un salto di qualità con persone che hanno significato molto nel territorio dal Centro sperimentazione autosviluppo, a Gennarta. Abbiamo comunque collaborato e stiamo collaborato con tante associazioni per esempio l’associazione Consultiamoci. Abbiamo voluto realizzare un progetto concreto con la gestione, ormai già da cinque anni, del sito culturale della chiesa altomedievale del Salvatore con il suo giardino. Quel sito rappresenta un simbolo, (di rinascita e sperimentazione, di riflessione profonda e ricerca interiore, di piccole comunità, di vita sobria in armonia con i cicli della natura, d’incontro e dialogo radici della nonviolenza, di paesaggio agreste, della terra, della biodiversità, della comunità del cibo, di una nuova alleanza tra produttori e cittadini) che si irradia poi nel territorio e oltre. Noi diciamo che abbiamo attivato non un Mercato ma una comunità, la comunità “Saludi e Trigu!” che va oltre il limiti di quel sito. Anche se in piccolo, siamo un punto di riferimento per tantissime persone.

E il nostro mercato è stato così apprezzato come presidio di valorizzazione delle biodiversità alimentari da essere inserito nell’app realizzata da Laore dell’itinerario dell’agro-biodiversità nel Cammino Minerario di Santa Barbara.

Questa nostra esperienza, che ha voluto promuovere tempi e luoghi d’incontro dove raccontarsi e cooperare, sperimentare altre forme di convivenza che superi l’infelicità di una economia di mercato e il controllo sulle nostre vite realizzato anche con le nuove tecnologie, non è nata dal nulla, ha una lunga storia di pratiche di sostegno ai nostri produttori, di gruppi d’acquisto e poi abbiamo visto che nel mondo tanti stanno agendo come noi e stanno costruendo esperienze di valorizzazione dei beni comuni dove stanno maturando nuove concezioni della condizione umana e della vita. “L’umanità in movimento richiede nuove forme di pensiero, nuove sensibilità: in sintesi il racconto di una dimensione esistenziale nuova, che per ora esiste più come esigenza emergente. Una volta messa in luce, è comunque un’urgenza che va assecondata: non c’è tempo da perdere”. (Così scrive il prof. scrittore Sandro Muscas nel suo libro “La vita non basta”).

Certo dobbiamo estendere queste esperienze partecipative che hanno un grande valore ambivalente come obiettivi e come metodo.

Per quanto riguarda gli obiettivi, l’olocausto ambientale (come lo definisce Carla Benedetti) ci conduce a sviluppare un vero e forte sentimento di emergenza. Occorre agire radicalmente e presto. Subito

E la condizione umana e della terra ci spinge ad agire avendo una visione olistica e cosmica.

Ho letto questa estate “Oltre le passioni tristi, dalla solitudine contemporanea alla creazione collettiva” di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista di origine argentine che ci invita ad essere all’altezza della nostra epoca postmoderna che è andata oltre all’esilio dell’uomo dalla natura arrivando ad una cattura globale del vivente a beneficio di macro organismi automatizzati. C’è, secondo il filosofo, una colonizzazione di tutte le funzioni vitali e una medicalizzazione della vita che rende patologica qualunque sofferenza esistenziale. C’è un vissuto di impotenza che possiamo scardinare solo con l’azione collettivo fonte di gratificazione e di gioia, accettando la fragilità, il limite l’imperfezione e il lato oscuro dell’esistenza e scommettendo sull’amore anche nel nostro progetto politico.

E allora è compito e obiettivo di tutta l’umanità intera, e di ciascuno di noi,   generare una società o meglio civiltà che abbia come finalità prima la cura di ogni essere umano e del mondo naturale intero.

Io credo che tali argomenti sono tanto centrali oggi che dovremmo fermarci e parlare solo di questo e trovare e costruire un progetto comune sinergico che metta insieme tutti gli aspetti per farci sentire vive/i, protagoniste/i, padrone/i del nostro futuro. Tutti dovrebbero essere orientati nel loro quotidiano a cercare insieme le soluzioni migliori per aiutarci a tutelare le trasformazioni vitali (nel paesaggio, nella abitazioni, nel cibo, nel lavoro, nell’energia, nel divertimento, nel riposo, nella ricerca della salute) per difenderci da trasformazioni disastrose ormai inevitabili e cambiare rotta dimezzando la nostra impronta sul pianeta.

Per quanto riguarda il metodo quindi nella nostra realtà ciascuno naturalmente dovrebbe fare la propria parte, sarebbe bello se ci sentissimo un organismo unitario che converge su alcuni obiettivi comuni, valorizzando le differenze e in qualche modo accettandole, ma arricchendo le nostre scelte individuali e collettive con l’apporto di tutti.

Gli strumenti sono la partecipazione diretta con un atteggiamento di accoglienza e dialogo, ma anche la ricerca del meglio, della competenza, del valore.

Noi vediamo concretamente che le esperienze si possono espandere e anche collegare per rafforzarsi.

Le esperienze migliori sono quelle partecipate e con visioni d’insieme. Oltre a noi, Normann, è un esempio dove i volontari della comunità stanno ripulendo i percorsi da fare nella montagna e ripristinando i passaggi anche dei minatori; il cammino di Santa Barbara è una bellissima realizzazione, ma pensiamo anche alla rete di “Warfree, Liberu dae sa Gherra”. Ma ci sono tantissime persone con tante energie positive.

La valorizzazione della storia mineraria passa dagli archivi storici e dalle storie personali, rilette sotto una nuova luce. Cosa ci insegnano le esperienze tratte dagli archivi delle scuole di miniera e in modo particolare della scuola di Monteponi? Come risponde la popolazione alle vostre iniziative di divulgazione?

Negli anni sono state tante le esperienze didattiche portate avanti di diretto impegno sui temi che investono la qualità della vita quotidiana: il diritto al gioco, la qualità del nostro cibo e la sua origine, la tutela e l’estensione del verde pubblico, la necessità di produrre meno rifiuti e di riciclarli, l’incontro positivo con altre culture, non avendo paura di conservare una propria specificità sarda o di contaminarsi, la valorizzazione critica della cultura mineraria, di ciò che siamo, proponendo anche forme laboratoriali - museali come, a Monteponi, il museo dei bambini delle comunità minerarie.

Il Laboratorio Museo dei bambini della scuola elementare “Andaus a scola” è nato vent’anni fa, come museo della memoria della scuola e dell’esperienza scolastica, dei bambini che hanno lavorato in miniera ieri e oggi, un museo laboratorio che si proietta verso il futuro “prendendo La terra in mano” come pedagogia e filosofia. Un esempio di luogo creato dalla comunità al servizio della comunità, stimolo per costruire la rete museale di una città che dovrebbe essere educativa.

La sua realizzazione è stata un’esperienza molto bella, partecipativa, dal basso, che ha coinvolto centinaia di persone. Nel 2002, esaurita la frequenza nella scuola elementare di Monteponi, la comunità scolastica del terzo Circolo didattico ha proposto che diventasse un Museo laboratorio. Io mi sono battuta con molta convinzione per questo, perché rimanesse questo presidio di memoria e ricerca pedagogica. Da allora migliaia di bambini e bambine nei piccoli banchi di legno dell’aula scolastica degli anni cinquanta, hanno scoperto, sperimentando metodi di ricerca storico-archivistica, la storia mineraria della città di Iglesias e del territorio, hanno conosciuto il lavoro dei bambini nelle nostre miniere di fine ottocento e in quelle di oggi in tutto il mondo.

Oltre le unità espositive “Bambini a scuola” e “Bambini al lavoro”, nel piano superiore, l’associazione Scudimi con l’apporto di professionisti e il contributo del Comune di Iglesias e della Fondazione Banco di Sardegna, ha realizzato i laboratori del saper fare, che rendono viva la missione del Museo Laboratorio di cura della salute del Pianeta e della Formazione permanente.

E queste memorie vengono continuamente arricchite, infatti all’interno dell’attività del Museo Laboratorio si sta ricostruendo con fonti storiche di vario genere (archivio fotografico, archivio delle memorie orali, archivio dei documenti, archivio dei materiali didattici delle varie epoche), uno spaccato della vita dei bambini e delle comunità. L’ultima ricerca sui registri scolastici con le cronache curate dalle maestre nei primi anni ’30 del secolo scorso è diventata un libro a cura della dottoressa Daniela Aretino, nostra collaboratrice fin dai primi anni di attività. Una pubblicazione, sostenuta dall’amministrazione comunale, molto apprezzata e queste ricerche del passato si affiancano agli incontri di pedagogia e didattica innovativa che rivalutano e divulgano l’ecopittura del docente Massimo Lumini, e ci portano a riscoprire figure centrali nella storia della pedagogia e della didattica a partire da Celestin Freinet, Mario Lodi e Gianni Rodari con la collaborazione della studiosa di letteratura per l’infanzia Vittoria Negro.

Il progetto culturale, didattico, turistico trova molta rispondenza nell’attività con le scuole e negli incontri con la città e merita di proseguire.

La metafora   è quella di “mescolare le infanzie” come dice l’antropologo Pietro Clemente, le nostre, quelle degli antenati, dei nonni, dei vecchi minatori e quelle dei bambini di oggi e di domani e ancora quelle dei bambini di altre culture, perché non c’è un solo modo giusto di essere bambini e dobbiamo far crescere insieme le possibilità per l’infanzia di avere spazi e modalità proprie per conoscere, apprendere, creare, sperimentare la collaborazione e l’autonomia.

Di cosa hanno bisogno le comunità, marginali come la nostra, per gestire il proprio futuro? Quali strumenti e quali obiettivi?

Ho conosciuto da poco il termine comunità marginali e ho visto che viene utilizzato per indicare comunità considerate povere ed emarginate, ma che si stanno dimostrando portatrici di germi di un futuro, anche come prefigurazione ecologica cioè la coerenza tra la pratica quotidiana e gli obiettivi a lungo termine. Luoghi di lotta per tutelare i territori in cui le comunità vivono e costruire la cosiddetta "economia della risonanza" (amplificazione di esperienze che crescono e si espandono come le onde sonore) che si contrappone alla polarizzazione sociale che ci richiude in bolle confermative, Territori marginali dove potrebbe essere più facile promuovere gruppi di sviluppo sociale dove fare le cose insieme, darsi obiettivi che immaginano e prefigurano un futuro, già nelle azioni dell’oggi. Scateniamo questa immaginazione collettiva che riassume idealità e responsabilità.

Siamo immersi, scusate se lo ripeto ma penso che venga troppo sottovalutato, in una crisi umanitaria ed ecologica drammatica, che pensavamo rimandata nei decenni e che invece si sta manifestando così pesantemente già da ora. Nonostante ciò, tutto va avanti quasi come nulla fosse. E non sappiamo risolvere i conflitti se non con la guerra che dovrebbe essere rifiutata da tutti a priori, costringendoci a cercare altre strade.

Ci siamo chiesti come anche in questo territorio dare un contributo a questa profonda trasformazione necessaria e insieme costruire un’economia duratura, sostenibile, rigenerativa? Prima di tutto con una grande autoconsapevolezza di ciò che siamo e siamo stati e vogliamo essere- Assumendoci la responsabilità che è diversa dalla colpa, mi insegna mia figlia. Se non ci assumiamo le responsabilità non cambiamo, non ci evolviamo e non esercitiamo il nostro potere.. Sentiamoci tutti dentro un grande movimento per la rigenerazione. Noi siamo l’ambiente e dobbiamo sostenere tutti i processi vitali a cui siamo collegati, la salute dell’ambiente è la nostra salute. L’abbiamo capito molto bene con la pandemia e abbiamo anche sperimentato che se rallentiamo le nostre attività, in poco tempo possiamo anche cambiare rotta e ridare vigore e nuova vita agli ecosistemi naturali e alla rinascita.

Le nostre miniere raccontano anche di un grande movimento operaio che ha combattuto per riscattare le proprie condizioni. E c’è un grande protagonismo oggi in questo territorio di tante donne, soprattutto, e di uomini per costruire una visione del futuro, di autosviluppo.

Qualche anno fa la nostra attività di Scuola civica di politica si è concentrata per molti mesi sullo studio di una ricerca approfondita sullo stato del nostro pianeta. Un libro di Naomi Klein dal titolo “Una rivoluzione ci salverà perché il capitalismo non è sostenibile. Naomi nel suo libro ci esprime il valore di trasformazione profonda che nel passato hanno avuto i grandi movimenti di massa come per esempio quello contro la schiavitù.

La loro efficacia partiva prima di tutto da obiettivi chiari, cosa che i grandi movimenti di massa si devono ancora costruire oggi.

C’era la consapevolezza, in quei grandi movimenti, di cambiare i valori culturali e così esponevano i sogni in pubblico, mostravano all’umanità una versione migliore di se stessa, liberavano l’immaginazione politica e provocavano un rapido cambiamento nella percezione di ciò che era possibile. E non avevano paura di adottare il linguaggio della moralità, di mettere da parte gli argomenti pragmatici basati sull’analisi costi/benefici e di parlare di giusto e di sbagliato, di amore e di indignazione.

Occorre aprire lo spazio per un grande dibattito pubblico sincero non solo per creare un contesto politico che ci consenta di ridurre drasticamente le emissioni, ma anche per affrontare quei disastri che ormai non possiamo più evitare.

Gramsci insegna che una crisi non diventa storicamente generativa fino a quando non viene vissuta come tale e si decide di agire per cambiare l’ordine sociale, economico, i paradigma culturali. Ecco l’importanza della consapevolezza. Lasciamo perdere tutto ciò che non è importante, andiamo all’essenziale e lavoriamo insieme, tutti insieme. Nessuno si salva da solo.

Nel loro libro “Il nostro cibo”, per la sovranità alimentare della Sardegna, che presenteremo all’interno del nostro Mercato nei prossimi mesi, Maurizio Fadda e Fabio Parascandolo esprimono una sintesi   che rappresenta un’idea di prossimo futuro per cui vale la pena di continuare ad impegnarsi

Le comunità che vorremmo

… sarebbero paesi e città con abbondanti superfici di verde urbano gestito da tecnici preparati e sensibili che lo considerano un bene comune della collettività e non un arredo urbano “che se fosse di plastica sarebbe perfetto”.

Ciascuna di queste comunità locali dovrebbe avere intorno a sé una rete di piccoli agricoltori e allevatori biologici e consapevoli, colti e preparati, anche se non obbligatoriamente inquadrati in sistemi ufficiali di certificazione della qualità (meglio sistemi di garanzia partecipata e relazioni di conoscenza tra produttori e consumatori). Gli agricoltori produrrebbero la quasi totalità degli alimenti per la comunità in cui abitano e delle reti di coltivatori diretti potrebbero, con il supporto di istituzioni pubbliche, conferire materie prime alimentari di produzione locale a microindustrie e laboratori distrettuali di trasformazione.

Ognuno di questi paesi o quartieri urbani potrebbe avere uno o più mulini in pietra e degli agricoltori locali dovrebbero coltivare il frumento intorno agli insediamenti (il grano costituisce storicamente il 70/75% della nostra alimentazione di popolazioni mediterranee); la gente potrebbe inoltre cuocersi il pane o altri prodotti da forno in forni comunitari rionali, "La legna per gli stessi dovrebbe ove possibile essere fornita da ciascun Comune con la gestione di Piani di forestazione dei terreni comunali più scoscesi e dei terreni meno fertili e a rischio erosione”.

Questi sono gli obiettivi essenziali oggi e io credo che se veramente ci fosse un piano organico, integrato, partecipato, creativo, condiviso che pone insieme tradizione ed innovazione e il benessere dei cittadini e della terra, riusciremo a crearci un’economia e una società più giusta.

Ci sono nuovi progetti che vuole condividere con noi?

Il mio impegno, insieme naturalmente a tante altre persone con cui condivido ideali continua e si rafforza nella direzione degli obiettivi che ho detto.

Mi è piaciuto sempre scrivere e ho realizzato tantissime piccole pubblicazioni quali sintesi di attività scolastiche o culturali. Sto ora completando, sempre collaborando con tante persone, un lavoro di ricerca che mi auguro diventi una pubblicazione entro ottobre, su alcuni giardini di Iglesias, pubblici e privati. Questa ricerca “Giardini della città di Iglesias”, multidisciplinare, e non certo esaustiva rispetto alla ricchezza che Iglesias possiede, nasce dall’impegno costante nel tempo di alcune associazioni   del progetto “I Giardini della Biodiversità” (Scuola Civica di Politica, ASD Gennarta, Centro Sperimentazione Autosviluppo). Ha una tappa simbolica di riferimento il 24 maggio 2015 quando con l’agronomo Andrea Aru, il responsabile del CNR - ISPA UOS Sassari Guy D’hallewin, l’archivista Daniela Aretino e un bel gruppo di cittadini abbiamo passeggiato per alcuni giardini della nostra città, bellissimi esempi di piccoli frutteti, di agrumi, mandorli, melograni, olivi conservati negli anni per la cura di appassionati cittadini, contadini, artisti.

Con Massimo Sanna, Roberta Baraglia e Andrea Aru, in questi anni abbiamo visitato e studiato questi giardini, li abbiamo fotografati e abbiamo raccolto tante bellissime storie. E ora speriamo di riuscire a rendere pubblico questo lavoro anche con una pubblicazione perché dare valore ai giardini nelle nostre città ci riempie di vita e bellezza. Ci fa sperare di dare risposte immediate ai cambiamenti climatici e alla crisi ambientale, ritornando alla semplicità e alla sobrietà che questi frutti ci ispirano, all’autoproduzione e alla trasformazione delle città in giardini e in giungle urbane come propone il botanico, accademico e saggista Stefano Mancuso, facendoci aiutare soprattutto dalla rigenerazione spontanea forestale.

Ci sono tanti altri aspetti di cui parlare in una visione futura della nostra realtà, e il vostro è uno spazio aperto a futuri contributi.

Cosa vorrebbe che rimanesse di questa breve conversazione, quali semplici consigli darebbe ai giovani e alle giovani delle nostre comunità per spingere il cambiamento?

Vorrei far emergere il valore della partecipazione e della responsabilità di ciascuno di noi nel fare delle scelte. Nel cambiare dal di dentro, nell’agire concretamente.

Di vita comunitaria si sente sempre più il bisogno, ma non si trovano le modalità nuove per praticarla se non in contesti spesso formali e vuoti.

E d'altronde la cittadinanza attiva non si insegna, si pratica; i valori non si insegnano, si praticano.

E allora dobbiamo avviare una pratica di incontro, riflessione, ascolto dove ritrovare le nostre radici materiali e spirituali che ci legano alla terra, alla vita. Sentiamoci comunità intenzionale che progetta la rivoluzione delle coscienze. E lasciamo spazio ai giovani e alle loro soluzioni, al loro essere il futuro.

 

Grazie e buon lavoro.

 

 

 

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Marina Muscas

  

 

Marina Muscas

(Iglesias, classe 1955)

1972 Maturità Magistrale; 1997 Corso di perfezionamento a distanza in “Comunicazione educativa e didattica” di durata annuale dell’Università degli studi di Padova. Moglie, madre, insegnante di scuola primaria per trentasei anni, promotrice e coordinatrice di progetti territoriali nei campi della qualità della scuola, della lotta alla dispersione scolastica, della ricerca storico-antropologica e della pratica didattica relativa alla memoria storica con l’utilizzo di tantissimi strumenti (rappresentazioni teatrali, filmati, murales, album di figurine, animazioni nelle piazze, contributo per la realizzazione del Museo dei Bambini di Monteponi). Ha curato numerose piccole pubblicazioni che hanno raccolto esperienze culturali e didattiche collettive. Per anni ha portato nella scuola i temi della pace e della realizzazione dell’orto scolastico con esperienze che hanno coniugato l’apprendimento cognitivo a quello emozionale, i contenuti con i valori, gli stili di vita e l’essenza della vita. Impegnata da sempre nello scenario politico-culturale della città, co-fondatrice della Scuola Civica di Politica - La Città in Comune e dell’esperienza “I giardini della Biodiversità”, ha collaborato con numerose associazioni credendo fortemente nel lavoro in rete e nella forza collettiva per migliorarsi crescendo insieme.

 

Blog collettivo iglesiente

  

Archivi digitali

Mauro Ennas intervista Daniela Aretino Dessì per il Blog collettivo iglesiente.

Il suo impegno ultra ventennale nella divulgazione della storia della città l'ha portata in una posizione di rilievo nell'ambito culturale dell'intero territorio iglesiente. Costantemente impegnata, su più fronti nella valorizzazione culturale territoriale, con ricerche, relazioni, seminari, conferenze e lezioni frontali e in differita, per le scuole e le associazioni del territorio. La sua azione instancabile, appassionata e costante di promozione della storia della nostra città ha come centro nevralgico l'Archivio storico comunale di Iglesias e i quasi otto secoli di storia della città. Ci piacerebbe sapere da lei come si sono evoluti gli archivi storici, con particolare riferimento all'Archivio storico di Iglesias, e qual è lo stato evolutivo attuale, quali strumenti, quali nuovi metodi e quali le speranze e le prospettive per l'acquisizione di conoscenza e consapevolezza storica territoriale.

La ringrazio, anche a nome del Blog collettivo iglesiente, per avere accettato di rispondere a questa intervista e per il suo impegno costante nella ricerca e nella divulgazione storica del nostro territorio, mirata alla crescita culturale e civile delle popolazioni delle nostre comunità e del territorio del sud-ovest sardo.

Grazie per essersi resa disponibile!

Innanzitutto potrebbe cercare di ricostruire com'è nato il suo impegno per la storia dell'Iglesiente? Lei è nata in Svizzera da emigrati iglesienti, quali elementi della sua infanzia e della sua formazione hanno influito nelle sue scelte di vita e di impegno culturale? Ci parli di lei stimolando i lettori con qualche suggestione.

Grazie a voi anzitutto per avermi chiesto un contributo che, spero, possa risultare utile in qualche modo.

Parto dal presupposto che ognuno di noi è unico poiché è la risultante di moltissimi fattori: l’educazione, le esperienze di vita, il contesto in cui si cresce, la risposta individuale a tutti questi elementi. E ciò per dire che sulla mia infanzia e formazione non ho nulla di particolare da raccontare anche se, stimolata da questa domanda, riesco a individuare alcuni momenti e aspetti che, in qualche modo, hanno poi influenzato fortemente il mio divenire e, poi, la mia passione per … la cultura.

Bambina timidissima, ricordo ancora un abat-jour arancione (che chiamai Truciolo in riferimento al ballerino dai lunghi capelli biondi che spopolava in tv alla fine degli anni ‘70), compagno delle mie letture notturne "proibite" (nel senso che mi era proibito leggere ancora dopo l’ora della buonanotte ma io, con l’abat-jour nascosto sotto le coperte, trasgredivo spesso). La lettura è stata mia compagna fin dall’età di 5 anni (entrai a scuola in seconda elementare dopo aver fatto la cosiddetta “primina” proprio a 5 anni e dopo aver sostenuto il mio primo esame all’età di sei anni appena compiuti): Il Milione, Le avventure di Huckleberry Finn, Heidi, e molti altri. Li divoravo.

Un passaggio fondamentale nella costruzione della futura dottoressa Aretino avvenne in quinta elementare. Neanche 10 anni, viaggiavo con lo scuolabus (allora era “il pullmino”) per recarmi a scuola dalla periferia di Iglesias in cui, proprio da poco, ci eravamo trasferiti. Quel giorno eravamo particolarmente in ritardo e, insieme a una mia compagna di classe, non so bene come, decidemmo di non entrare a scuola per non essere rimproverate dalla maestra. Mal ce ne colse! I miei genitori, avvisati, non so come, dalla maestra, anche se non esisteva ancora il registro elettronico, mi propinarono una ramanzina, anzi, direi una strigliata tale che da allora imparai la lezione: sii corretta, fai quel che devi, non farti trascinare e prosegui per la tua strada.

Altra tappa che ritengo importante è quella che mi vide, credo nel 1986, intervenire pubblicamente davanti a un centinaio di persone, forse più, in occasione di una manifestazione, che si svolse nell’Aula Magna dell’Istituto Minerario, a proposito del caso di Paula Cooper, la ragazzina americana che, avendo commesso un omicidio, era stata condannata alla sedia elettrica a soli 15 anni. In quell’occasione intervenne anche la prof.ssa Carol Beebe Tarantelli, vedova di Ezio Tarantelli, economista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1985, che si sarebbe interessata al tema della pena di morte più e più volte anche da deputata del Parlamento italiano. Tornata al posto dopo il mio intervento, dietro di me un giovanissimo giornalista di nome Mauro Pili, il futuro sindaco di Iglesias, mi chiese il nome e l’età. Fu la prima di molte successive volte in cui finii sul giornale, ma non ricordo assolutamente cosa dissi. Doveva essere qualcosa di interessante visto l’applauso del pubblico, costituito per la maggior parte da miei coetanei, e la citazione sul giornale (devo provare a procurarmene una copia prima o poi). Capii che forse, comunque, avevo qualcosa da dire.

In questo quadro inserisco anche la mia scelta del Liceo Scientifico quale percorso ottimale che mi conducesse all’Università. Scartato per cause di forza maggiore il liceo Linguistico (mi sarei dovuta trasferire, a soli 13 anni, a Santu Lussurgiu, in un convitto, ma i costi non erano sostenibili per la mia famiglia di quattro persone con la sola entrata di uno stipendio da operaio), sapevo solo che avrei continuato a studiare. Lo promisi a me stessa e ai miei genitori.

Carol Beebe Tarantelli, pg. 6-8 del pdf, Atti Parlamentari — 36834 - 36836 — Camera dei Deputati X LEGISLATURA - DISCUSSIONI - SEDUTA DEL 3 AGOSTO 1989

La sua passione per la storia del territorio è una passione antica nonostante lei sia giovanissima, come si è evoluta e quali sono le conclusioni che è riuscita a raggiungere?

È stato proprio durante i 5 anni di Liceo che ho maturato fortemente la mia passione per tutto ciò che può essere definito “cultura”. I miei interessi hanno spaziato dalla lingua e letteratura latina alla geografia astronomica, dalla biologia alla filosofia, senza dimenticare fisica e matematica e la lingua inglese, mio primo amore. All’uscita dal Liceo, con un diploma di maturità col massimo dei voti (finendo nuovamente sul giornale), ancora non sapevo in quale Facoltà universitaria iscrivermi e, in pratica, cosa fare da grande. I professori mi avevano chiaramente detto che, sia che avessi scelto la Facoltà di Ingegneria, sia che avessi scelto Lettere, avrei sicuramente raggiunto ottimi risultati. Insomma: in quell’occasione non mi furono granchè d’aiuto. Qui si colloca un episodio che amo raccontare perché fu quasi come una fulminazione sulla via di Damasco, e ancora ringrazio il mio compagno di banco. Egli mi prestò un libro relativo alle professioni e mestieri, di cui non ricordo assolutamente nulla fuorché una pagina: la descrizione del lavoro di archivista, gli studi da intraprendere e le attività tipiche di un mestiere che non avevo mai sentito neanche nominare. Fu così che scelsi la Facoltà di Lettere Moderne. Prima ancora di concludere gli esami e laurearmi mi iscrissi alla Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Cagliari, biennale, con obbligo di frequenza. Dopo una prima selezione, che ridusse gli iscritti da 80 a 50 frequentanti, dopo due anni di lezioni e un esame di Stato (due scritti e un orale) uscimmo diplomati in 19. Ricordo ancora distintamente una delle prima lezioni in cui ci vennero presentate tutte le “patologie” degli archivi e dei documenti: topi, guano di uccelli, “pesciolini d’argento", danni da umidità e molto altro. Alla fine della lezione la docente ci invitò caldamente ad abbandonare le lezioni qualora avessimo storto il naso davanti ad alcune di quelle immagini. Io non avevo avuto alcun moto di ribrezzo a fastidio. E continuai.

Con il mio Diploma da Archivista Paleografa, preso a luglio del 1995, a settembre di quell’anno cominciai a lavorare a Carbonia, presso il Centro di Documentazione poi diventato Sezione di storia locale, per poi giungere, dopo 8 anni, all’Archivio Storico Comunale di Iglesias.

È stata proprio l’esperienza lavorativa sul campo (dove tra l’altro non sono mancati incontri del terzo tipo con scarafaggi e topi) a confermare ciò che aveva intuito da tempo: la professione di archivista era proprio la scelta giusta per me. I miei interessi scientifici e umanistici trovavano una conciliazione formidabile.

Infatti il lavoro comporta, da una parte, l’attività scientifica di schedatura dei documenti, di ricostruzione dell’ordine di questi secondo il principio di provenienza (che impone il rispetto dei fondi, cioè dell'organizzazione data all'archivio dal soggetto produttore, e che si raggiunge tramite il metodo storico che pone al centro dell'attenzione di chi riordina la storia del soggetto produttore, inquadrata nel contesto storico-istituzionale sia generale che locale. Il vero lavoro dell'archivista è così lo studio del soggetto produttore, della sua struttura e della sua storia, che dev'essere riportata in un'introduzione storico-istituzionale alle carte riordinate), di elaborazione degli strumenti scientifici cosiddetti “di corredo” cioè di ausilio per la consultazione da parte degli utenti.

Dall’altra parte la professione di archivista mi ha consentito di coltivare, approfondire, elaborare e poi, in un secondo momento condividere, cioè valorizzare e divulgare, la Storia, l’amata storia locale, la storia di uomini, donne, bambini, ciascuno con la sua esistenza, le sue esperienze, e la sua, seppur piccola, impronta nel mondo.

Quali sono le sue influenze culturali nella costruzione di una consapevolezza territoriale? Secondo lei, ha senso parlare di identità territoriale?

L’esperienza professionale mi ha permesso di giungere a una “consapevolezza territoriale”, come l’ha chiamata lei con una definizione che calza a pennello.

A Carbonia ci giunsi come tanti iglesienti, non proprio prevenuta ma conscia, e forse un po’ tronfia, del fatto che la storia di quella giovane città non fosse paragonabile alla storia quasi millenaria della città di Iglesias. Mi ricredetti nel giro di tre, due, uno…e nel corso del tempo, grazie alle conoscenze storiche, al riordino del fondo archivistico del Dopolavoro di quella città, giunsi a comprendere che tra le due città, le due realtà territoriali, vi erano più punti di contatto e somiglianze di quante mai avrei immaginato, a partire da quel denominatore comune storico dell’attività mineraria che, nella mia carriera, sarebbe ricorso più e più volte.

Inoltre, per la prima volta venivo a contatto con la realtà dei laboratori didattici nelle scuole e cioè con l’attività di divulgazione che, fin dal principio, mi entusiasmò come nient’altro mai. L’idea di condividere ciò che leggevo e imparavo dai documenti storici, adattando il linguaggio, di volta in volta, al pubblico che avevo davanti e intorno, era allettante e, messa in pratica, molto soddisfacente. Nel frattempo avevo anche imparato, con non poche difficoltà iniziali, a lavorare in squadra con colleghe e collaboratori vari: e non è poco!

Forte di questa base professionale all’inizio del 2003 (annus terribilis: nuovo lavoro, laurea e matrimonio! oltre che estate cocente!) approdai all’Archivio storico comunale di Iglesias: un Archivio storico e, per di più, dichiarato “di notevole importanza” dal Ministero dei Beni culturali nel 1978. La ricchezza di contenuti dell’Archivio e le numerose attività da svolgere e svolte mi coinvolse in pieno permettendomi un'ulteriore crescita professionale e personale. Il mal di pancia da agitazione nelle occasioni pubbliche diminuiva (non è mai cessato del tutto) e le tecniche di comunicazione si affinavano, grazie alla conoscenza dei contenuti, agli approfondimenti, agli incontri e alle diverse occasioni di scambio con colleghi, docenti anche universitari, studiosi, appassionati, bimbi curiosi, professionisti della Soprintendenza Archivistica per la Sardegna.

In tutto questo non so bene se si possa parlare di identità territoriale come “risultato della storia, della cultura, ecc. proprie di un luogo e della popolazione che lo anima che, con la sua presenza e interazione, mediante produzioni simboliche e di senso, attribuisce significato al luogo”. Dalla mia esperienza direi che una tale identità esiste nel nostro territorio (inteso come Iglesiente) con notevoli punti di contatto, e possibilità di paragoni in positivo e in negativo, con altri territori vicini (subregioni del sud ovest sardo, come il Guspinese e l'Arburese), ma non ne abbiamo piena conoscenza e coscienza.

Lei è riuscita a trasmettere e amplificare una passione già presente, in modo spesso disordinato, nei cittadini e nelle cittadine iglesienti, legata a una trasmissione orale dei saperi e non al rigore della ricerca documentale. Qual è stato il suo segreto per aumentare le competenze storiche della popolazione?

Non so se sono riuscita nell’intento di aumentare le competenze e conoscenze storiche della mia città. Credo di essere ancora nel mezzo del cammin. C’è molto lavoro ancora da fare, ho ancora molto da imparare e approfondire ed eventualmente, in seguito, divulgare partendo da un mio principio fondamentale: ciò che non è condiviso non serve. E a me piace molto provare a rendermi utile! Credo sia nota a tanti la mia disponibilità ogni qualvolta si tratti di divulgare la nostra storia, condita magari da piccole curiosità, sempre rilevate dai documenti. Il mio intento è spesso proprio quello di dimostrare che la conoscenza deve partire dalle fonti storiche ma con una premessa fondamentale: anche i documenti vanno interpretati ma non arbitrariamente, piegandoli magari alle proprie teorie e ipotesi. Occorre ogni volta “farsi contemporanei” al documento, senza revisionismi di sorta, e interpretarlo senza piegarlo alle categorie del presente, ma con una conoscenza approfondita del periodo in cui quel documento fu posto in essere. Occorre sempre tenere presente che i documenti d’archivio nascono per una esigenza pratica, quella di far funzionare in qualche modo l’ente produttore.

L'Archivio storico e il Breve di Villa di Chiesa sono sempre il punto focale dell'interesse turistico nell'Iglesiente, ma sta emergendo un nuovo tema legato agli archivi minerari. Sappiamo dell'introduzione di archivi digitali dovuti alla digitalizzazione, seppur parziale, degli archivi del personale della Società Monteponi. Cosa ci può dire in proposito? Quali sono le prospettive emergenti?

L’Archivio storico comunale di Iglesias deve certamente la sua importanza alla ricchezza e antichità della documentazione comunale in esso conservata: non sono molti gli archivi comunali del nostro territorio (e di tutta la Sardegna) che possono vantare l’esistenza, al proprio interno, di documentazione trecentesca e dei secoli successivi fino al XVIII. Ma la rilevanza del nostro Archivio è data anche dalla presenza di documentazione delle Società minerarie, in particolare della Società Monteponi/Montevecchio così denominata a seguito della fusione operata nel 1961 dalle due Società.

Grazie all’attività determinata, paziente, appassionata, dell’archivista storica di Iglesias, la dott.ssa Celestina Sanna (per la quale i ringraziamenti non sono mai troppi), il fondo archivistico di questa società da Milano, dove era conservato, è stato riportato in Sardegna, e in particolare, a Iglesias dove, dopo le attività di schedatura, riordino, inventariazione, è ormai da decenni a disposizione del pubblico.

Sempre molto consultato, dapprima per esigenze “amministrative” (richieste di pensione per silicosi per esempio), ora sempre più per ricerche storiche, tesi di laurea e altro, è composto da diverse “serie archivistiche”, tra le quali quelle del personale.

Di recente, alla fine dello scorso anno 2021, un bando regionale rivolto agli archivi storici, ha indotto me e la collega, la dott.ssa Giorgia Marcìa, a riflettere (piuttosto in fretta) sulla possibilità di presentare un progetto per un finanziamento. Consapevoli dell’importanza della “serie” del personale del fondo della Società Monteponi/Montevecchio, sull’elenco del quale da qualche mese si stava lavorando, in poco tempo abbiamo presentato all’Ufficio Cultura del Comune un progetto che, completato tutto l’iter burocratico, ha consentito l’aggiudicazione di un contributo per la digitalizzazione delle cosiddette “tessere del personale”: oltre 12 mila tesserini con dati anagrafici e lavorativi dei dipendenti della Società, operanti nei cantieri di Monteponi e collegati, in un arco cronologico compreso tra il 1871 e il 1977. Grazie a un software è ora possibile consultare in archivio queste tessere ricercando per nome, cognome o mansione o cantiere di primo impiego. Inoltre, come presentato al pubblico in occasione della manifestazione “Miners & Data mining: la digitalizzazione delle tessere del personale di Monteponi e lo «scavo» sui dati storici”, svoltasi in Archivio lo scorso 17 giugno, è stato possibile effettuare una serie di attività di Data mining che ne hanno evidenziato la valenza, la ricchezza, i possibili studi futuri. Questo lavoro è stato la dimostrazione plastica di come la scienza possa “andare a braccetto” con la storia, di come la tecnologia possa ampliare le conoscenze “umanistiche”, di quanto l’informatica possa entrare, a ben diritto, perfino in archivi storici che conservano documentazione anche assai antica, e non solo nei così detti archivi digitali moderni (ossia quelli che nascono su supporto informatico e su di esso vengono conservati con tutto ciò che questo comporta, compresa la “formazione” di archivisti digitali che si sta dibattendo molto negli ultimi tempi). E non penso alla sola digitalizzazione cioè in pratica dell’acquisizione digitale, tramite scanner o opportuni apparecchi fotografici, correttamente eseguita da ditte specializzate e munita di metadati.

La valorizzazione della storia mineraria passa dagli archivi storici e dalle storie personali, rilette sotto una nuova luce. Cosa ci insegnano le esperienze tratte dagli archivi delle scuole di miniera, in modo particolare della scuola di Monteponi, e degli archivi del personale della miniera?

Qui si fa riferimento a una delle molte attività di collaborazione che ho avuto la fortuna di effettuare negli anni: quella con l’Associazione Scu.di.mi. - Scuole di miniera e che ha portato a una mostra e una serie di relazioni al pubblico da me tenute presso la ex scuola elementare di Monteponi. Frutto di questa attività (anzitutto di ricerca archivistica) è stato un volume dal titolo “In questa scuola si lavora e si vive. Cronache di una scuola di miniera negli anni Trenta a Monteponi (Iglesias) con trascrizione dei registri scolastici”. In esso, dopo aver ricostruito le vicende storiche nazionali e locali, ho proposto la ricostruzione storica delle vicende del villaggio minerario di Monteponi con particolare riguardo all'istituzione e attività della scuola elementare. Ma soprattutto dalla trascrizione e analisi delle cosiddette cronache delle maestre, rilevate nei registri scolastici (custoditi presso l’Archivio scolastico dell’Istituto Comprensivo Pietro Allori di Iglesias) degli anni 1930-1935, ho potuto rilevare una serie di elementi pertinenti la storia, la storia locale, la vita scolastica, i bambini, le maestre.

Non mi stancherò mai di dire quanta ricchezza, umanità e storia si possano trovare in documenti del genere in cui anche la semplice nota “Altri bambini (due) furono rimpatriati per la disoccupazione dei genitori” rivela un mondo intero. Siamo nel 1931 e il riferimento è alla grave crisi del 1929, partita dall'America e giunta a travolgere anche il settore minerario iglesiente.

Credo fermamente che la conoscenza delle nostre realtà storiche e la comprensione delle vicende evidenziate nei documenti archivistici possa aiutare la crescita, la consapevolezza, e, spero, anche l’impegno per costruire il nostro presente e impostare (meglio) il futuro nostro e dei nostri figli.

In pratica, di cosa avrebbe bisogno l'attività archivistica della nostra città per potenziare le sue attività e con esse la crescita di consapevolezza storica e civile delle nostre comunità?

Per quanto riguarda l’Archivio storico comunale di Iglesias, le attività portate avanti sono numerose e, sebbene la situazione sia sicuramente migliore rispetto a moltissimi altri Archivi storici comunali, la si potrebbe sicuramente migliorare. Sarebbe per esempio auspicabile che all’Archivio storico venisse versata anche la documentazione, che è di sua competenza, del ventennio compreso fra 1960 e 1980 che ancora sta nell’archivio di deposito del Comune. Molto lavoro è ancora da fare e un potenziamento del personale (in termini di ore di lavoro e di unità lavorative) non sarebbe male. Per ora si tenta di fare il possibile con competenza ed entusiasmo, consapevoli che le attività da svolgere in archivio vanno da quelle di back-office (schedatura, riordinamento, inventariazione, sistemazione a scaffale, ottimizzazione di procedure) al front-office (sala studio, attività didattiche, promozione e valorizzazione in occasione di specifici eventi e con manifestazioni diverse). Certo che, tra pandemia e false occasioni di crescita culturale, fornite talvolta dai media, la lotta è spesso impari. Purtroppo gli Archivi (in generale e storici in particolare) restano ancora, nell’immaginario collettivo, luoghi polverosi e imperscrutabili, talvolta scarsamente valorizzati dagli stessi enti produttori. Ma ciò non ci impedisce di provare a proporre nuove occasioni di conoscenza e crescita.

Cosa dovrebbe sapere un utente medio che frequenta l'Archivio storico della nostra città? Come possono gli utenti aiutare il personale ad aiutarli?

Per un utente medio credo che sarebbe utile sempre tenere presente le fondamentali differenze tra archivio e biblioteca. In Archivio si entra con una domanda e, con l'intermediazione dell’archivista, la si deve trasformare in: “dove posso trovare qualcosa che risponda alla mia domanda?”. Sulla base della conoscenza delle competenze degli enti produttori degli archivi da consultare si può cominciare la ricerca. In Archivio non esistono elenchi di documenti (in realtà esistono anche questi ma solo per determinate serie: nel nostro archivio, ad esempio, esistono gli elenchi dei fogli di famiglia, dei censimenti, dei permessi di seppellimento e altri che, però, si configurano più che altro come basi di dati e non semplici elenchi): esistono gli inventari in cui occorre leggere innanzitutto le introduzioni storiche e archivistiche, elemento fondamentale e imprescindibile. In questo processo è fondamentale il supporto dell’archivista che deve poter contare sulla sincerità e chiarezza dell’utente.

Cosa vorrebbe che rimanesse di questa breve conversazione, quali semplici consigli darebbe ai giovani e alle giovani delle nostre comunità per spingere il cambiamento?

Solo una breve citazione: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza” (Antonio Gramsci).

2017. Serie di incontri a Gonnesa per parlare della storia del paese a partire dai documenti conservati presso l'Archivio storico comunale di Iglesias. 

 

Grazie e buon lavoro.

 

2011. Una manifestazione con i "Lavoratori delle fosse", parlando del Breve di Villa di Chiesa.

 

  Bibliografia dell'autrice (PDF)

 

Della stessa autrice

   Il bianco, il nero e il grigio a cura di Daniela Aretino Dessì

   Ingiustizie: ieri e oggi a cura di Daniela Aretino Dessì

   Un archivio integrato del lavoro minerario a cura di Daniela Aretino Dessì

 

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Daniela Aretino

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Daniela Aretino Dessì

(Iglesias, classe 1971)

1989  Maturità scientifica presso il Liceo "G. Asproni" di Iglesias;  2003 Laurea in Lettere presso l'Università degli studi di Cagliari;  1993-1995 Diploma di Archivista Paleografa e Diplomatica presso l'Archivio di Stato a Cagliari; 2019 Inserimento negli elenchi nazionali in qualità di "Archivista" di prima fascia; dal 1995 Archivista Paleografa con oltre 25 anni di esperienza sul campo, principalmente  presso l'Archivio storico del comune di Iglesias; aggiornamento continuo anche tramite i corsi dell'Associazione Nazionale Archivistica Italiana; madre, moglie, appassionata  studiosa di Storia e di divulgazione culturale, partecipo a seminari e presentazioni come relatrice e volontaria culturale.

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