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7 febbraio 1324: a 700 anni dall’assedio di Villa di Chiesa

Il prossimo 7 febbraio ricorre il settecentesimo anniversario del termine dell’assedio dell’odierna Iglesias, per opera delle truppe catalano-aragonesi. La resa seguì sette mesi di duro assedio e portò a consistenti sconvolgimenti nella guerra di conquista della Sardegna da parte della Corona d’Aragona, un secolo di guerra, e infine una permanente influenza sociale, politica e culturale che unisce la Penisola Iberica alla Sardegna. Fu anche il primo seme per la futura creazione dello Stato Italiano [1].

 

 Mura Pisano-Aragonesi di Iglesias

 

  1. La conquista della Sardegna

Siamo sul finale del XIII secolo. La Corona d’Aragona è una potenza dalla forte vocazione marittima, che si estende lungo la costa orientale della Penisola Iberica e comprendente i Regni di Maiorca, Valencia, Aragona, e il Principato di Catalogna. La capitale è Saragozza, ma il potere e la corte reale permangono a Barcellona, punto nevralgico delle rotte mediterranee e con una forte classe borghese e nobiliare che controlla (e limita) il potere del re. Per poter sfruttare al meglio i commerci con il Sud-Ovest Asiatico, era fondamentale ottenere una tratta sicura all’interno del Mediterraneo. Era quindi necessario ottenere il controllo di territori intermedi fra la Penisola Iberica e il Medio-oriente: Sicilia, Sardegna, Neopatria (odierna Grecia).

Espansione della Corona d’Aragona, Museu d’Història de Catalunya, Barcellona

 

Nel 1282, i Siciliani si ribellano al governo francese degli Angioini, nella rivolta passata alla Storia come Vespri Siciliani. Il popolo chiede aiuto al re aragonese, da sempre rivale del Regno francese. Il conflitto viene risolto solo nel 1297 da Papa Bonifacio VIII in un periodo, quello medievale, in cui il Papa si riteneva la massima e indiscussa potenza sopra tutti i regni di fede cristiana. Bonifacio VIII istituisce formalmente il Regno di Sardegna e Corsica, affidando al re aragonese, Giacomo II, la licentia invadendi in cambio della sua rinuncia al Regno di Sicilia. Giacomo II può procedere alla conquista della Sardegna (e della Corsica, che però non avverrà mai) con i suoi propri mezzi e con l’autorizzazione papale [2].

La guerra non inizia immediatamente. Giacomo II e suo figlio, l’infante Alfonso, devono trovare i mezzi e i soldi per la spedizione. Tramite trattati e accordi fra tutte le entità della Corona d’Aragona, il re riesce a trovare i fondi, in gran parte forniti dal Principato di Catalogna, e nel 1323 può dare inizio alla conquista catalano-aragonese [3].

La spedizione parte da Maiorca il 14 giugno 1323, sotto la guida dell’infante Alfonso. L’infante e le sue truppe sbarcano qualche settimana dopo a Palma di Sulci (presumibilmente l’odierna Porto Botte). Vengono accolti da alcuni delegati delle entità presenti in quel momento in Sardegna: il Giudice d’Arborea e amico di penna di Alfonso, Ugone II, manda dei suoi uomini per suggerire all’infante di non procedere con l’assedio di Cagliari ma attaccare Villa di Chiesa. Le motivazioni del Giudice, a capo dell’ultimo Giudicato a quel tempo esistente, erano forse di personale astio contro i Pisani che al momento controllavano il Sud Sardegna ed in particolare Villa di Chiesa, ma si può spiegare anche con la presenza e lo sfruttamento delle ingenti miniere d’argento.

Alfonso accetta l’idea e per prima cosa manda un suo comandante a perlustrare la villa. Don Artal de Luna raggiunge la cittadina con un manipolo di uomini e cerca di ottenere una reazione dalla villa per studiarne le difese, ma Villa di Chiesa, sotto il controllo di due capitani e difesa da poco più di cento balestrieri di addestramento pisano, si chiude e non reagisce. Artal de Luna torna indietro a mani vuote. 

Nel frattempo, l’infante Alfonso raggiunge Villa di Chiesa con tutte le sue truppe. Instaura cinque campi d’assedio attorno alle mura. Il suo campo d’assedio si trovava di fianco alla chiesa di Valverde, dove si sistemò anche l’infanta Teresa che lo accompagnava in quella che si credeva essere una breve battaglia.

Sul finale di giugno, 1323, Alfonso guida la prima offensiva alla villa, che fallisce miseramente, dovuta anche alla sua giovane età ed inesperienza, come riferisce il suo consigliere Pere de Boyl nelle lettere a Giacomo II. Anche Ugone II raggiunge Villa di Chiesa con le sue truppe e si schiera al fianco dell’infante. Dei rappresentanti delle famiglie Doria e Malaspina, di origini genovesi e che controllavano territori nel nord Sardegna, si presentano a rendere omaggio al re nella persona dell’infante.

Ad inizio luglio, Alfonso tenta un nuovo attacco che le truppe di rinforzo, ma di nuovo fallisce. Si decide quindi di procedere con l’assedio.

Siamo nel caldo periodo estivo e una delle prime azioni di Alfonso è tagliare i rifornimenti e l’acqua alla villa. Gli acquedotti vengono interrotti e in poco tempo le fontane si seccano. I collegamenti con l’esterno, con Cagliari, Pisa, e con le miniere, sono interrotti. Ma Alfonso non aveva considerato uno dei più grossi problemi che affliggevano la Sardegna d’estate sin dai tempi romano-punici: la malaria.

Presumibilmente, il campo d’assedio reale si trovava in luogo paludoso e la malattia si diffuse rapidamente. Le cronache catalane del tempo, raccontano che metà dell’esercito catalano-aragonese morì e l’altra metà era malata. Non vi erano più abbastanza uomini vivi per seppellire i morti [4]. Anche l’infante e l’infanta si ammalarono. Alfonso soffrì di febbri malariche per tutto il tempo che trascorse in Sardegna, e tutte le damigelle catalane dell’infanta morirono.

Nel frattempo, i mesi passano. Villa di Chiesa tenta di chiedere aiuto a Pisa mandando una lettera d’implorazione tramite il messaggero Guiccio da Fabriano. Conosciamo questa lettera perché Guiccio fu intercettato e arrestato dalle truppe aragonesi e arborensi, e la sua lettera ci fornisce una descrizione della Villa di Chiesa medievale: una cittadina racchiusa da una muraglia, una palizzata di legno e un fossato, e con venti torri e un castello (San Guantino, in seguito Salvaterra).

Anche gli aragonesi ottengono rinforzi dalla madre patria, nella persona del Castellano d’Amposta: Martí Perez de Oros. Il Castellano, però, viene ucciso quasi subito dal dardo (javelin, in [4]) di un balestriere di Villa di Chiesa.

Villa di Chiesa è allo stremo. Non vi è acqua né cibo. Si tenta di mandare fuori donne, vecchi e bambini, per limitare il numero di cittadini da sfamare, ma le truppe aragonesi rispediscono tutti dentro. La gente è costretta a mangiare topi e i propri animali domestici. Allo stesso modo, le truppe aragonesi erano dimezzate, colpite dalla malaria. Cominciano quindi i primi tentativi di pace. Dopo sette mesi di assedio, i capitani di Villa, Vico Rosselmini e Jacopo da Settimo, accettano la tregua: avrebbero aspettato fino al 13 febbraio, 1324, dei soccorsi da Pisa. In caso di mancato supporto, avrebbero firmato la resa.

La resa giunge però il 7 febbraio 1324, per volere dei cittadini che aprono le porte della città in vista della mancanza di viveri anche solo per un altro giorno. Le truppe aragonesi entrano quindi in città ma l’infante Alfonso riconosce il valore dei nemici e gli concede l’onore delle armi. A coloro fra i combattenti che desiderano continuare a combattere per Pisa, è concesso lasciare la città liberamente e dirigersi al Castello di Cagliari. Alla città è inoltre concesso di mantenere il proprio codice di leggi di stampo pisano, il Breve di Villa di Chiesa.

La conclusione dell’assedio riporta l’attenzione su Cagliari. Qualche mese più tardi, anche Cagliari si arrenderà all’assedio e i Pisani saranno definitivamente sconfitti, anche se la loro presenza rimarrà ancora per qualche tempo. Nel 1324, si ha quindi anche la creazione ufficiale per mano dell’infante Alfonso del Regno di Sardegna, nella cittadella catalana di Bonaria, regno che sei secoli più tardi, ormai in mano sabauda, guiderà l’unificazione italiana [1]. Villa di Chiesa diverrà la prima Città Regia (ossia sotto il diretto controllo del re e non infeudata) del Regno di Sardegna.

La guerra di conquista della Sardegna però non termina qui. I rapporti fra Arborea e Aragona si stringono ulteriormente, con i principi d’Arborea, Mariano e Giovanni, figli di Ugone, che vengono inviati alla corte di Barcellona per essere educati. Mentre Giovanni rimane fedele alla Corona, Mariano si mostra recalcitrante alle misure del re Pietro IV, figlio di Alfonso. La situazione peggiora per la Corona quando Mariano eredita il titolo del Giudicato alla morte del fratello e, nel 1353, si schiera a favore dei Doria contro l’Aragona, iniziando la guerra sardo-catalana che si protrarrà ancora per settant’anni, portata avanti dai figli Ugone ed Eleonora.

Le fasi finali della guerra di conquista vedono la disfatta delle truppe sarde a Sanluri, nel giugno 1409, e la fine del Giudicato d’Arborea nel 1420, secondo il trattato fra il Giudice Guglielmo di Narbona e Alfonso V il Magnanimo. La Sardegna diventa quindi interamente Regno di Sardegna ed entra totalmente nell’orbita della Corona d’Aragona, prima, e di Spagna, poi, con le ultime rivendicazioni da parte di Leonardo d’Alagón ai tempi dei Re Cattolici, Isabella e Fernando.

L’assedio di Villa di Chiesa non è quindi solo un fatto a sé stante, ma l’inizio di una guerra dura e sanguinosa per entrambe le parti che si protrarrà per un secolo e che porta la Sardegna nella sfera d’influenza iberica, non come territorio sottomesso ma come parte integrante di un impero in espansione.

Proiettile di catapulta risalente all’assedio aragonese, attualmente esposta nel cortile del castello Salvaterra.

 

  1. Scambi culturali

L’ingresso nella Corona d’Aragona comporta un’accentuazione delle già presenti influenze culturali iberiche in Sardegna. Queste influenze si riscontrano nella giurisdizione, nella lingua, nella religiosità, nell’architettura, nella moda.

La creazione del nuovo regno necessita anche la creazione di un modo di governo, che viene scelto replicando le Cortes catalane. In Sardegna prende il nome di Parlamento, formato da tre bracci o Stamenti (ecclesiastico, reale, militare, sulla base del modello catalano). Il Parlamento sardo rimarrà attivo sino al 1847, anno della Fusione Perfetta del Regno di Sardegna, mentre le Cortes catalane vengono soppresse nel 1720 a seguito della Guerra di Successione Spagnola.

Dalla Catalogna, la Sardegna eredita anche il modello pattista: il re è tale solo al seguito di un patto con il popolo (rappresentato dal Parlamento-Cortes) ed è obbligato ad ascoltarne le richieste in cambio di una tassa, il donativo. L’apice del Pattismo in Sardegna si raggiunge nel 1668, quando il marchese di Laconi Agostino di Castelvì, capo dello Stamento militare, si oppose fermamente fintantoché le richieste dei Sardi non fossero ascoltate. La vicenda si concluse con i noti fatti di Cagliari: l’omicidio prima del marchese di Laconi e poi del Viceré stesso, inclinazioni che portarono lentamente la Sardegna fuori dalla Corona spagnola nel 1720.

Durante il periodo aragonese, la Sardegna vede anche l’applicazione del sistema feudale, eliminato solo nel 1839 dopo anni di lotte antifeudali, e l’attribuzione dell’odierno stemma dei Quattro Mori, originariamente appartenente ad Aragona.

Stemma dei Quattro Mori nella vetrata della Cappella Palatina di Santa Agata, Palau Reial Major, Barcellona.
 
 
Volta crociata gotico catalana di una cappella della Chiesa di San Francesco, Iglesias.
 
 
Retablo di Tuili del Maestro di Castelsardo, chiesa di San Pietro Apostolo, Tuili (SU).

 

Le influenze linguistiche sono note ai più, sia per parte del catalano che del castigliano, e non si limitano al solo algherese. La stessa Villa di Chiesa prese il nome di Vila d’Esglésies, dal catalano, poi Villa Iglesias, infine Iglesias. Le stesse classi nobiliari sardo-iberiche assumono come lingua colta prima il catalano, poi il castigliano, creando opere letterarie di alto pregio ed educandosi in università iberiche. Si ha anche la fondazione delle due università sarde di Sassari e Cagliari.

Basta assistere alle Processioni religiose della Settimana Santa per essere testimoni dell’influenza spagnola sui riti religiosi sardi, riti con le radici nel gusto sfarzoso di sei secoli fa e che ormai anche in Spagna sono andati perduti o modificandosi. I canti liturgici che accompagnano diverse celebrazioni, gosos o goccius, sono di discendenza catalana, goigs [5].

Del periodo aragonese ritroviamo testimonianze nelle opere architettoniche e pittoriche. Si importa nell’Isola lo stile gotico catalano, ancora visibile non solo nella cattedrale di Alghero ma anche in molte chiese, sparse un po’ ovunque in Sardegna. Sono presenti in alcuni tratti più antichi della cattedrale di Cagliari e sono presenti nella nostra chiesa di San Francesco, uno dei più chiari esempi di gotico catalano in Sardegna. Nella pittura, troviamo numerosi retabli dipinti da maestri sardo-catalani, come il Retablo del Maestro di Castelsardo a Tuili.

Una forte e chiara influenza iberica si ritrova negli indumenti e gioielli tipici della tradizione sarda. Nomi di chiara discendenza castigliana o catalana (mantiglia, deventali, falda...) ma anche apparenti somiglianze nelle forme, tagli, composizioni e nell’appariscente ricchezza. I tessuti catalani erano già apprezzati da Mariano IV e la sua corte. La Sardegna era ancora troppo spagnola un secolo dopo essere passata in mano ai Savoia (di ispirazione francese), e questo comportò diverse frizioni.

Insomma, l’assedio di Villa di Chiesa non è solo un evento a sé stante, non è nemmeno solo l’inizio di una guerra che durò cento anni, ma è l’evento iniziale di un processo di scambio e integrazione che ha formato quello che oggi chiamiamo identità sarda.

 

  1. Coltivare la memoria

Un anniversario del genere meritava essere ricordato. Ed è così che qui, ad Iglesias, non sono mancate le manifestazioni in ricordo di questo evento (e ancora non sono finite).

Circa un anno e mezzo fa, ho proposto un’idea all’Archivio Storico Comunale di Iglesias: organizzare una serie di manifestazioni che ripercorressero i 7 mesi di assedio, per diffondere la conoscenza e la consapevolezza, anche fra i più giovani e gli studenti. Con gioia e anche con un po’ di stupore da parte mia, l’idea è stata apprezzata dalle archiviste Dott.sse Daniela Aretino Dessì e Giorgia Marcìas, che da allora si sono messe al lavoro per proporre 5 diversi eventi, fra presentazioni di libri, convegni, incontri con le scuole, e un incontro finale speciale. E io ne ho avuto notizia proprio mentre mi trovavo a Barcellona per studio.

 
Daniela Aretino e Vindice Lecis durante la presentazione de “La conquista” al castello Salvaterra.
 
Rappresentazione della Compagnia D’Arme Gioiosa Guardia.

 

Il primo evento si è tenuto il 24 giugno 2022, al castello Salvaterra. Abbiamo assistito alla presentazione del libro “La conquista” di Vindice Lecis, con visite guidate al Museo delle Torture medievali e rappresentazioni di scherma storica da parte della Compagnia d’Arme Gioiosa Guardia.

Abbiamo coinvolto gli studenti di scuole medie e superiori, che hanno mostrato il loro entusiasmo nell’imparare la propria Storia locale (e, mia personale soddisfazione, il riconoscimento e la gratitudine delle loro famiglie).

Ci aspetta un grande evento, il 3 febbraio al Teatro Electra (ore 18:00). Per terminare e ricordare al meglio la resistenza della nostra città, ci ritroveremo al teatro per una sessione di letture di autori iglesienti, accompagnati dalla Banda musicale “Verdi” che proporrà un’opera scritta per l’occasione dal compositore Lorenzo Pusceddu. Un evento di notevole interesse a conclusione di un progetto tutto iglesiente, in cui speriamo di riscontrare il coinvolgimento della cittadinanza. E ci sarò anch’io, o meglio il mio alter-ego letterario, Dr. Watson. Per qualsiasi informazione e aggiornamento, rimando alla pagina Facebook Amici dell’Archivio Storico.

Fabio Manuel Serra introduce il Convegno internazionale di “Ammentu”.
 

Lo scorso ottobre, abbiamo potuto assistere anche ad un Convegno internazionale, organizzato dal Dott. Fabio Manuel Serra per la rivista “Ammentu”. Con il pretesto dei settecento anni dell’assedio, abbiamo avuto il piacere di sentir discutere dei fatti concernenti l’assedio, delle sue conseguenze storiche e culturali che qui sono state solo accennate. Rimando quindi agli Atti del Convegno, quando verranno pubblicati.

Concludo questo articolo con la speranza che queste iniziative siano solo l’inizio verso una nuova consapevolezza della nostra Storia e che questa venga finalmente portata nelle scuole come programma di studio o, laddove rimanga difficile, tramite insegnanti consapevoli dell’importanza della nostra Storia, che tanto locale poi non è.

Locandina degli eventi organizzati dall’Archivio Storico Comunale per i 700 anni dall’assedio.

 

Bibliografia

[1] Francesco Cesare Casula, Il Regno di Sardegna – Volume 1

[2] Gian Giacomo Ortu, La Sardegna dei Giudici, Ed. Il Maestrale

[3] Gian Giacomo Ortu, La Sardegna tra Arborea e Aragona, Ed. Il Maestrale

[4] La conquista della Sardegna nelle Cronache catalane - Ramon Muntaner e Pietro IV il Cerimonioso, AA. VV., Ed. Ilisso

[5] August Bover i Font (UB), I “goccius” nei Paesi catalani e in Sardegna: un’evoluzione parallela, Insula n° 8, 2010

 

Letture consigliate

“La città dell’argento”, Marco Tangheroni

“Costumi”, AA. VV., Ed. Ilisso

“Gioielli”, AA. VV., Ed. Ilisso

“I riti della Settimana Santa in Sardegna”, AA. VV., Ed. Imago

“L’architettura del Medioevo in Sardegna”, Raffaello Delogu, Carlo Delfino Editore

“Pittura sarda del Quattro-Cinquecento”, Georgiana Goddard King, Ed. Ilisso

“La via dei retabli - Le frontiere europee degli altari dipinti nella Sardegna del Quattro e Cinquecento”, AA. VV., Carlo Delfino Editore

 

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Arianna Manca

 

 

 

Arianna Manca 

 (Iglesias, classe 1994)

2013: Maturità  scientifica presso ITIS Minerario "Asproni", Liceo Scientifico-Tecnologico di Iglesias; 

2016: Laurea triennale in Fisica presso l'Università degli studi di Cagliari (UniCa); 

2020: Laurea Magistrale in Fisica presso UniCa; 

2020: Inizio Corso di dottorato in Astrofisica presso UniCa. Associato presso l'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Appassionata di Storia e scrittura creativa.

  

Gramsci e il Sulcis-Iglesiente

Tra la straordinaria mole di riflessioni lasciateci da Antonio Gramsci (1891-1937) è noto che si possano trovare numerosissimi passi relativi alla Sardegna, ad una analisi del suo tessuto sociopolitico e del suo percorso storico. Meno noto è invece il grande interesse che il comunista sardo ebbe, sin dai primi anni della sua militanza politica e giornalistica a Torino, nei confronti di una zona peculiare dell’isola: il Sulcis-Iglesiente.

Dietro questo interesse così specifico, vi era la consapevolezza di Gramsci che si trattasse di un microcosmo di assoluto rilievo, di fatto unica realtà operaia in Sardegna. Ciò derivava dalla presenza massiccia delle miniere e delle associate Società per l’attività estrattiva, che determinò la formazione di una folta classe operaia di minatori sparsi nella zona sulcitana.

Dalla seconda metà del XIX secolo, la Sardegna si configurava perciò come un territorio a trazione senza dubbio agricola e rurale – come il restante Mezzogiorno – ma con l’eccezione del bacino minerario del sud-ovest.

La sua terra natia rappresentava dunque un oggetto di studio straordinario, con questa inusuale divisione sociale che rendeva il Sulcis-Iglesiente paradossalmente più affine alle realtà industrializzate del nord Italia, ma il tutto applicato ad uno dei territori più poveri ed arretrati in assoluto del Paese.

Sfruttando queste caratteristiche peculiari del Sulcis, si crearono le condizioni propizie per lo sviluppo del Partito Socialista in questa porzione d’isola. Persistevano invece le enormi problematiche ad affermarsi nel mondo rurale e, d’altronde, i socialisti decisero di focalizzare i loro sforzi quasi esclusivamente nella organizzazione degli operai di miniera, dimostrandosi quantomeno poco motivati – se non volontariamente disinteressati – alla disamina delle problematiche e delle esigenze dei contadini sardi. A partire da questo retroscena si può leggere l’attività pioneristica di esponenti socialisti “continentali” come Giuseppe Cavallera ed Alcibiade Battelli, che ebbero un ruolo determinante nella fondazione delle Leghe e della Federazione dei minatori[1].

Il lavoro di organizzazione e gestione sindacale dei socialisti nel Sulcis sfociò nei successi elettorali del 1914, che portarono il PSI ad insediarsi fondamentalmente in tutti i comuni del bacino minerario. Oltre a Carloforte, già “rossa”, vennero conquistati i comuni di Iglesias, Gonnesa, Domusnovas, Fluminimaggiore, Portoscuso e Calasetta. Questa circostanza venne sottolineata con orgoglio proprio da Gramsci, che in un articolo sull’Avanti! del 16 aprile 1919, si congratulava proprio con l’amministrazione comunale del capoluogo sulcitano perché «a Iglesias e in molti paesi della provincia di Cagliari funziona il comune socialista»[2].

Il riferimento di Gramsci al comune di Iglesias non fu affatto casuale: il politico sardo, già da anni, aveva gli occhi puntati su quella zona dell’isola. È del 22 ottobre 1917 una appassionante lettera che egli inviò proprio al sindaco di Iglesias, Angelo Corsi (1889-1966). Questi fu uno dei personaggi più noti ed influenti del socialismo sardo, giunto in Sardegna qualche anno dopo Cavallera e salito alla ribalta politica molto precocemente; fu sindaco del capoluogo minerario dal 1914 al 1921, rappresentando l’ala riformista del PSI[3]. Il contenuto della lettera è notevole perché Gramsci elogiava il lavoro del compagno, proponendogli una collaborazione col Grido del Popolo – giornale del quale era in quel momento redattore – nell’ottica di «far conoscere la Sardegna nuova nell’alta Italia»[4]; ovvero mostrare a tutto il movimento socialista nazionale i grandi passi compiuti nell’isola, con l’obiettivo di analizzare il movimento politico economico del proletariato sardo.

Lettera di Antonio Gramsci ad Angelo Corsi (Torino, 22 ottobre 1917). Nella lettera, Gramsci invita Corsi, sindaco di Iglesias dal 1914, a scrivere un articolo sul problema della libertà doganale per il «Grido del popolo», di cui è diventato redattore. Pubblicata da Corsi in L’azione socialista fra i minatori della Sardegna, cit., la lettera è stata riprodotta in Antonio Gramsci e la questione sarda, cit., pp. 85-86.
 

Torino, 22 ottobre

Caro compagno Corsi,

il compagno Sotgia di Iglesias mi parla spesso della tua cordialità e del tuo amore per la trattazione dei problemi concreti che rientrano nel programma del nostro partito. Mi sono così deciso a scriverti. Ti conoscevo un po’ di nome: ho letto un tuo articolo nell’Avanti! e uno nella Voce di Prezzolini qualche anno fa, ho seguito nella Sardegna socialista la tua operosità di sindaco e di consigliere provinciale. Poiché la Sezione torinese mi ha incaricato temporaneamente di redigere il Grido del Popolo mi piacerebbe poter pubblicare qualche tuo scritto. Ti spedisco a parte il numero del Grido dedicato al problema doganale. Potresti, sull’argomento, scrivere qualcosa? Te ne sarei gratissimo, e te ne sarebbero gratissimi i lettori. Potresti tu stesso scrivere qualche articolo sul movimento politico economico del proletariato sardo? O vuoi aver la bontà di incaricare qualcuno capace di farlo? Credo sia utile far conoscere la Sardegna nuova nell’alta Italia, e credo che sia anche doveroso per meglio rinsaldare la coscienza unitaria del proletariato italiano.

Attendo una tua risposta. Il compagno Sotgia ti saluta.

Cordialmente

Antonio Gramsci

Corso Siccardi 12 Torino

 

Questo acquisisce ancor più valore storico alla luce del fatto che, contestualmente, Gramsci stava portando avanti una serrata critica nei confronti del socialriformismo – corrente della quale Corsi era un esponente di assoluto spicco – e si stava allontanando sempre più dalle posizioni ufficiali del PSI. Infatti, già dal 1917, mentre imperversava ancora la guerra, Gramsci inasprì una forte polemica, specie con Turati e Treves – dirigenti socialriformisti, in ottimi rapporti con Corsi medesimo – per via dell’atteggiamento fatto assumere al PSI dinanzi agli scioperi per il carovita, causati dalla crisi di guerra. In questa occasione il socialriformismo, da corrente maggioritaria nel partito, cercò di distogliere le masse dall’idea di proseguire ed intensificare gli sforzi negli scioperi, in nome di una unità del Paese dinanzi al dramma della guerra[5]. Per Gramsci, la linea tenuta dal suo partito era «la politica di evitare il problema fondamentale, quello del potere, e di deviare l’attenzione e le passioni delle masse su obiettivi secondari, di nascondere ipocritamente la responsabilità storico-politica della classe dominante»[6].

Gramsci era influenzato notevolmente dalle posizioni di Lenin: la Rivoluzione d’ottobre, che portò i bolscevichi al potere in Russia, iniziò nemmeno un mese dopo l’invio della sopracitata lettera a Corsi. Ispirato dai Soviet e consapevole del momento storico cruciale, il futuro dirigente comunista accusava il PSI di voler fare la rivoluzione solo a parole, mentre poi nei fatti si rifiutava ogni tipo di azione realmente rivoluzionaria che derivasse dalla volontà popolare.

Al netto di tutto ciò, il fatto che Gramsci si rivolse al riformista Corsi con questi termini entusiastici è il segno che, quando si trattava di studiare la realtà della Sardegna e la comprensione delle sue dinamiche sociopolitiche, Gramsci abbandonava qualsiasi tipo di semplificante fissismo definitorio e classificatorio, per abbracciare un’impostazione più aperta, attenta a valutare senza pregiudizio l’operato di esponenti anche distanti politicamente. Questo è uno dei cardini fondamentali della visione gramsciana sul ruolo degli intellettuali, nella misura in cui, attraverso la propria peculiare forma di elaborazione teorica, indipendentemente dalla loro estrazione sociale o politica, possano contribuire a spandere la forza viva del proletariato e il suo ruolo di protagonista nella storia[7].

In questo caso specifico, Corsi rappresentava l’acutezza e la caparbietà di un dirigente locale che conosceva molto bene lo spirito e le aspirazioni della classe operaia più sfruttata, in una zona dimenticata dallo Stato italiano. Gramsci ne affermava le indubbie qualità, e avendo la forte motivazione di comprendere nel profondo la sua terra natia, sapeva anche che il punto di osservazione privilegiato di Corsi, così interno alle dinamiche di quella piccola porzione di isola industrializzata, era di importanza capitale per chiarire quelle di tutta la Sardegna e dell’Italia intera.

La volontà ferrea di Gramsci, sin da principio, era quella di evidenziare tutti quelli che definiva, sempre nel 1919, «i dolori della Sardegna»[8]. Dolori di una terra relegata allo stato di colonia, dove le condizioni di vita erano terribili – come peraltro già ampiamente dimostrato dall’inchiesta parlamentare dell’on. Pais-Serra, nel 1896[9] – e persistevano ad esserlo, a causa di quella che Gramsci definiva l’infamia della politica liberale e dei ceti economici che la sostennero[10].

 

«Perché deve essere proibito all’ “Avanti!” ricordare che a Torino hanno la sede i consigli d’amministrazione delle Ferrovie sarde e di qualche società mineraria sarda? Perché deve essere proibito ricordare che gli azionisti delle Ferrovie sarde, i quali si dividono lautissimi dividendi, i quali riscuotono dallo Stato lautissime indennità per ogni chilometro di strada ferrata, fanno viaggiare i pastori e i contadini sardi in vetture bestiame, fanno pagare ai pastori e ai contadini sardi tariffe altissime, fanno viaggiare i contadini e i pastori sardi in convogli trainati da locomotive riscaldate a legna invece che a carbon fossile, provocando ogni anno centinaia di migliaia di lire di danni con gli incendi determinati da questo combustibile?

Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono pagati con salari di fame, mentre gli azionisti torinesi impinguano i loro portafogli coi dividendi cristallizzati con sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna (specialmente le donne e i bambini) vanno scalzi d’inverno e d’estate, tra le spine e i letti di torrente che tengono posto di strade, perché il prezzo delle pelli è portato ad altezze proibitive dai dazi protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del cuoio, uno dei quali è presidente della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare ciò che ha detto, nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè, nel cinquantennio 1860-1910, lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente italiana non sarda? Perché è proibito ricordare che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea, in quanto lo Stato “spende” per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale? Perché è proibito ricordare che i minatori, i contadini, i pastori e gli artigiani del collegio di Iglesias hanno eletto un deputato socialista, il compagno Cavallera?[11]»

In questo intenso articolo, dove denunciava l’intervento nefasto della censura in Italia, si evince tutto il “sardismo” di Gramsci; caratteristica che si portò dietro durante tutta la sua carriera politica. E fu un orientamento peculiare, volto a risvegliare le coscienze per fomentare la rivoluzione proletaria. Nella sua visione, il “sardismo” e il concetto di “autonomia” – concetti fondanti del Partito Sardo d’Azione e dell’opera politica di Emilio Lussu – sono da considerare in senso socialista:

 

«Espropriando i grandi capitalisti, il socialismo farà sì che le miniere dell’Iglesiente siano dei sardi e non degl’inglesi, che le ferrovie sarde siano dei sardi e non dei capitalisti torinesi, che le grandi “tancas” siano dei contadini sardi e non di proprietari francesi o italiani del continente, che i caseifici siano dei pastori sardi e non dei capitalisti romani o dell’isola di Ponza. Il trionfo del socialismo vorrà dire la Sardegna, ai contadini, ai pastori e agli operai della Sardegna, ai figli di Sardegna che lavorano e sono costretti ad andare in America per guadagnare un tozzo di pane»[12].

 

Per giunta, i proletari sardi potevano contare sul supporto dei proletari di tutta l’Italia e di tutti gli altri Paesi, proprio in virtù del fatto che il “sardismo” non doveva essere concepito come una chiusura autoreferenziale dei sardi ad ogni contatto con l’esterno: «Cosa vogliono gli operai torinesi, cosa vuole la Camera del lavoro di Torino? Il socialismo. Cosa vogliono i contadini, i pastori, gli operai di Sardegna? Il socialismo. Per la stessa fede, essi sono dunque fratelli, non sono nemici; come fratelli devono amarsi e aiutarsi reciprocamente»[13].

La conoscenza dei fatti storici accaduti nel Sulcis-Iglesiente era sostanziale per la formazione di queste teorie gramsciane: «L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica; caddero le foreste – che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche – per trovare merce facile che ridesse credito, e piovvero invece gli spogliatoi di cadaveri, che corruppero i costumi politici e la vita morale»[14]; è evidente che Gramsci si riferisse anche alla attività di disboscamento massiccio che investì proprio i monti tra Iglesias e Fluminimaggiore, precisamente nella zona del borgo di S. Angelo, dove agiva da decenni la società mineraria di proprietà della famiglia Modigliani.

 

Riprendendo da Marx quella visione dialettica che già fu di Hegel, Gramsci si innesta perfettamente in una tradizione di pensiero che ha “incarnato” l’idealismo ottocentesco tramutandolo in una filosofia della praxis, ovvero il materialismo storico. Ridotta alla sua semplicità più vera, la dialettica si mostra come la facoltà della Ragione umana di confrontare tesi e antitesi per ottenere spiegazioni via via sempre più efficaci della realtà che viviamo. E occorre saper formulare equilibrate miscele di analisi e sintesi: la prima permette di scandagliare con precisione il fatto singolo, ed è come utilizzare una potente lente di ingrandimento che mostra il particolare; la seconda permette di avere una visione d’insieme, globale. Saperle combinare significa evitare risposte troppo facili, speculazioni prive di fondamento e, soprattutto, fraintendimenti tipici dello squilibrio fra i due percorsi conoscitivi.

Si osservi attentamente il fuoco di un camino: operare uno zoom notevole permetterà di analizzare con una precisione dettagliatissima ogni crepitio come non mai; ma se si avesse solo quel punto di osservazione, così ingrandito e totalmente pervaso dalle fiamme intense, si potrebbe facilmente incappare nell’errore di credere che si è in balia di un incendio colossale. Per evitare questo, occorre avere sempre chiara in mente l’idea globale e sintetica di cosa sia l’oggetto osservato. Viceversa, pensare il fuoco di un camino in modo troppo generale, può creare le condizioni favorevoli per una considerazione sommaria di cosa si ha davanti, dimenticando che è pur sempre un fuoco e che, sottovalutato, potrebbe sfuggire al controllo e creare dei danni; anche irreparabili.

Ecco quindi la cifra essenziale dell’impostazione gramsciana, che è una vera e propria eredità filosofica, direttamente correlata col suo essere sardo: la capacità di connettere “macro” e “micro”, “piccolo” e “grande”, optare sempre per una visione dialettica fra gli opposti, capace di non annullare una delle forze in causa a favore dell’altra, ma elaborando continue sintesi delle due che riducano al minimo la possibilità di cadere nelle facili contraddizioni, tipiche di una classe politica corrotta e opportunista. In Gramsci, il confronto dialettico, sfociante in una sintesi, diventava il dibattito fra “vecchio” e “nuovo”, fra “arretratezza” e “progresso”; dunque anche fra meridione e settentrione.

In altre parole, l’interesse così radicale e il legame indissolubile con la Sardegna che Gramsci ebbe costantemente nell’arco di tutta la sua vita erano – oltre che evidenti segni dell’amore per la sua terra – strumenti efficaci per lo sviluppo della sua coscienza critica di pensatore. Se è vero che Gramsci fu anche – o soprattutto? – un filosofo, è vero anche che la filosofia gramsciana riverberò del suo essere sardo; come ha scritto Alfonso Leonetti: «il ciclo gramsciano, nato sardo, muore sardo, senza nulla perdere del suo carattere internazionale»[15].

Quando Gramsci lasciò su carta l’enorme “testamento politico” dei Quaderni del carcere, ponendo per iscritto la sua visione del mondo, lo fece proprio alla luce del suo metodo filosofico di indagine storico-politica: per conoscere questo mondo, occorre essere capaci di connetterne le sue parti, e porle in comunicazione incessante. E quindi, in poche parole, comprendere le dinamiche interne dell’Italia, significa saperle comprendere e confrontare con la realtà della Sardegna, ed a sua volta anche con la realtà di un piccolo ma speciale territorio come il Sulcis-Iglesiente; in un processo che si svolge in entrambi i “sensi di marcia”.

 

 

BIBLIOGRAFIA

CORSI ANGELO (a cura di MANCONI FRANCESCO), Socialismo e fascismo nell’Iglesiente, in «Documenti e memorie dell’antifascismo in Sardegna (vol. 4)». Cagliari: Edizioni Della Torre, 1975

CORSI ANGELO, L’azione socialista tra i minatori della Sardegna (1898-1922). Milano: Edizioni di comunità, 1959

CUCCU ALESSANDRO, Angelo Corsi: l’azione socialista in Sardegna tra età liberale e fascismo. Iglesias: Associazione Minatori Nebida, 2020

GRAMSCI ANTONIO (a cura di CAPRIOGLIO SERGIO), Cronache Torinesi (1913-1917). Nuovi contributi. Torino: Einaudi, 1980

GRAMSCI ANTONIO (a cura di GERRATANA VALENTINO), Quaderni del carcere (1ª ed. 1948-1951). Torino: Einaudi, 1975

GRAMSCI ANTONIO (a cura di MELIS GUIDO), Antonio Gramsci e la questione sarda, in «Documenti e memorie dell’antifascismo in Sardegna (vol. 2)». Cagliari: Edizioni Della Torre, 1975.

GRAMSCI ANTONIO, La costruzione del Partito Comunista (1923-1926). Torino: Einaudi, 1971

MANCONI FRANCESCO, Giuseppe Cavallera e i lavoratori del mare di Carloforte (1897-1901). Cagliari: Edizioni Della Torre, 1977

PAIS-SERRA FRANCESCO, Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della pubblica sicurezza in Sardegna promossa con decreto ministeriale del 12 dicembre 1894. Roma, 1896

 

NOTE

[1]
Cfr. F. MANCONI, Giuseppe Cavallera e i lavoratori del mare di Carloforte (1897-1901). Cagliari: Edizioni Della Torre, 1977.

[2]
A. GRAMSCI (a cura di G. MELIS), Antonio Gramsci e la questione sarda, in «Documenti e memorie dell’antifascismo in Sardegna (vol. 2)». Cagliari: Edizioni Della Torre, 1975, pag. 96.

[3]
Per un approfondimento esaustivo sulla figura di Corsi si rinvia al prezioso lavoro biografico: A. CUCCU, Angelo Corsi: l’azione socialista in Sardegna tra età liberale e fascismo. Iglesias: Associazione Minatori Nebida, 2020; oltre che a: A. CORSI (a cura di F. MANCONI), Socialismo e fascismo nell’Iglesiente, in «Documenti e memorie dell’antifascismo in Sardegna (vol. 4)». Cagliari: Edizioni Della Torre, 1975; ed infine le memorie del politico: A. CORSI, L’azione socialista tra i minatori della Sardegna (1898-1922). Milano: Edizioni di comunità, 1959.

[4]
A. GRAMSCI, Antonio Gramsci e la questione sarda, op. cit., pag. 86.

[5]
Cfr. A. GRAMSCI (a cura di S. CAPRIOGLIO), Cronache Torinesi (1913-1917). Nuovi contributi. Torino: Einaudi, 1980, pag. XXXIII-XXXIV.

[6]
A. GRAMSCI (a cura di V. GERRATANA), Quaderni del carcere (1ª ed. 1948-1951). Torino: Einaudi, 1975, vol. I, pag. 322.

[7]
Cfr. A. GRAMSCI, La costruzione del Partito Comunista (1923-1926). Torino: Einaudi, 1971, pag. 150.

[8]
A. GRAMSCI, Antonio Gramsci e la questione sarda, op. cit., pag. 94.

[9]
Cfr. F. PAIS-SERRA, Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della pubblica sicurezza in Sardegna promossa con decreto ministeriale del 12 dicembre 1894. Roma, 1896.

[10]
A. GRAMSCI, Antonio Gramsci e la questione sarda, op. cit., pag. 88.

[11]
Ivi, pag. 94-95.

[12]
Ivi, pag. 99.

[13]
Ibidem.

[14]
Ivi, pag. 88-89.

[15]
A. LEONETTI, Una lettera di Alfonso Leonetti, in A. GRAMSCI, Antonio Gramsci e la questione sarda, op. cit., pag. 6.

 

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Alessandro Usai

  

 

Alessandro Usai

(Iglesias, classe 1995)

Nato a Iglesias vivo a Fluminimaggiore.

Mi occupo di Storia sociale e politica dell'Italia contemporanea e in particolare di Storia del socialismo e del comunismo.

2018 Laurea triennale in Filosofa presso l'Università degli studi di Cagliari; 2019 Percorso formativo discipline antro-psico-pedagogiche e metodologie e tecnologie didattiche presso l'Università di Cagliari; 2020 Laurea Magistrale in Filosofia e Teorie della Comunicazione (LM-78);  dal 2020 docente di Filosofia presso una scuola privata parificata.

  Curriculum

Le cernitrici nelle miniere sarde.

 

 

Si era perso il loro ricordo…

Nel mio paese, Guspini, a Sud-Ovest della Sardegna, nel Medio Campidano, a circa 9 Km dalla miniera di Montevecchio, moltissime donne erano state cernitrici, ma di loro se n’era perso il ricordo nonostante il lungo arco di tempo lavorativo trascorso: dalla metà dell’ottocento agli anni ’40 del novecento. Quasi un secolo: 33050 giorni!

Cernitrici al lavoro a Monteponi (Archivio storico comunale di Iglesias)

 

Donne che con l’avvento dell’industria mineraria in Sardegna, avevano ampiamente contribuito alla crescita economica, sociale del Paese e all’emancipazione femminile, sconvolgendo un sistema atavico che le relegava tra le mura domestiche, al lavoro dei campi o al fiume a lavare. Mestieri non riconosciuti ufficialmente, saldati con misere ricompense e solo stagionali.

Il 1850 fu foriero di novità per le donne.

Si apriva per loro un nuovo orizzonte che le avrebbe impegnate tutti i giorni dell’anno: un lavoro in miniera, fino ad allora riservato agli uomini. Avrebbero avuto una retribuzione sicura e un ruolo. Una rivoluzione che avrebbe dato loro la possibilità di essere indipendenti. L’ideatore oculato di questo cambiamento era stato un uomo: l’ingegner Paolo Antonio Nicolay, genovese, amministratore della Società Monteponi che, vista la scarsa capacità degli uomini a fare la cernita dei minerali e la loro antieconomicità, pensò di introdurre nei piazzali le donne che avrebbero svolto egregiamente il lavoro. Le aveva viste purgare montagne di legumi e cereali nei cortili delle case a corte, con abilità e destrezza e ne era rimasto colpito e ammirato, in più cantavano, ridevano, scherzavano creando un ambiente piacevole e sereno senza staccare il lavoro.

Capì subito che con la loro presenza avrebbe raggiunto due importanti scopi: più prodotto e meno spesa. Più minerale cernito con accuratezza e spesa dimezzata perché le donne sarebbero state pagate metà degli uomini Non trascurabile l’aspetto gioioso che le donne sanno portare anche nei luoghi di fatica. La proposta piacque ai suoi collaboratori ma li lasciava perplessi per il caos che ne sarebbe scaturito: promiscuità, approcci durante l’ora del lavoro, disordine morale, inconvenienti di varia natura riguardante anche la ciclicità della donna. Nicolay li rassicurò ribadendo che aveva pensato a tutto e che non sarebbe successo nulla di preoccupante, precisò che avrebbe introdotto la preghiera prima dell’ingresso a lavoro come deterrente e punizioni nel caso il regolamento venisse eluso. C’era bisogno di mani femminili e di occhi attenti per accelerare l’importante lavoro di cernita: lui aveva trovato il sistema.

E fu così che le donne, le ragazze, le bambine entrarono far parte di quel mondo di uomini.

Frotte di donne, a decine, a centinaia si riversarono nelle miniere di Monteponi, Montevecchio, Buggerru, Seddas Moddizzis, Sos Enatos, Argentiera, Monte Narba e altre ancora per occupare il posto degli uomini, non in galleria, ma nei piazzali a bocca di pozzo a bardellare, grigliare, spaccare minerale, cernere, vagonare e nelle laverie a lavare minerale al crivello, con la pancia sempre bagnata dall’acqua che trasbordava e i piedi a mollo grinziti come fave bollite.

 
Le donne delle miniere sarde (Montevecchio e dintorni).
 

Queste lavoratrici dovevano portare avanti un lavoro faticoso ed estenuante per dieci dodici ore ma la sicurezza di una retribuzione era allettante. I soldi in contanti ogni mese avrebbero ripagato la loro fatica e le avrebbe rese libere e indipendenti. La consapevolezza di essere, al pari degli uomini, parte integrante del mondo del lavoro, l’avrebbero acquista col tempo, confrontandosi, acquisendo saperi, aprendosi a nuove sfide con audacia e coraggio per contrapporsi alle ingiustizie perpetuate sulla loro pelle.

È in questi piazzali che nascono i confronti, le consapevolezze, le ribellioni, le scelte.

 

 

 

 

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Iride Peis Concas

  

 

Iride Peis Concas

(Guspini)

Iride Peis Concas, scrittrice, ha esercitato la professione di insegnante elementare per trentacinque anni, ed ora utilizza al meglio il suo tempo per compiere le sue ricerche storiche sulle donne di miniera e divulgare il ruolo sociale e civile delle lavoratrici.

Ha vissuto nel villaggio minerario di Montevecchio appassionandosi alla sua storia della sua gente e prodigandosi con passione per diffondere un messaggio positivo alle nuove generazioni, attraverso la storia e la narrazione di storie. 

Iride Peis Concas è una prolifica scrittrice che ha pubblicato innumerevoli lavori sulla vita nelle miniere sarde e sulle donne di miniera. 

  • Montevecchio (S’Alvure, 1991); Donne e uomini nella miniera di Montevecchio (S’Alvure, 1992);
  • La meccanizzazione nelle miniere di Montevecchio (AA.VV., Pezzini, 1992);
  • Gente di miniera (S’Alvure, 2003); Funtanazza (AA.VV., Zonza, 2006);
  • Sardegna: minatori e memoria (Coautrice, Associazione A.MI.ME, 2006);
  • I Direttori della Montevecchio, in lingua sarda (La Gazzetta del Medio Campidano, 2007-2008);
  • Contus de mena – Racconti di Miniera ( Domus de Janas, 2009);
  • Donne e bambine nella miniera di Montevecchio (Pezzini, 2010), da questo libro è stato tratto: Il Suono Della Miniera, del regista Mario Piredda e messo in scena a teatro, dall’attore e regista Gianluca Medas e la regista Elena Musio; 
  • Gente di miniera (S'Alvure 2003); 
  • Voci di donna nella collina di Gennas Serapis (Carlo Delfino Editore, 2015., ristamp. 2018);
  • Le Janas di Montevecchio di Iride Peis Concas, Narrativa (Racconti) Domus de Janas 2019.

Iride Peis Concas collabora per la presentazione di libri e di eventi culturali, ma non solo, ha collaborato alla realizzazione di alcuni film e documentari tra i quali:

  • Andavamo a piedi nudi (regia Lucia Argiolas, 1999); Appunti di viaggio (documentario a cura di Dafne Turillazzi, 2000); Progetto PON, sulla nascita della miniera di Montevecchio (Scuole elementari Satta di Guspini, 2005-2006).
  • Iride Peis Concas, nel 2007 ha effettuato diverse interviste per la realizzazione di un programma radiofonico in onda su Radio 3, con la collaborazione della giornalista Daria Corrias.

 

Il bianco, il nero e il grigio

 

 

Ci hanno sempre insegnato che storia e preistoria si distinguono per il fatto di avere o meno testimonianze scritte.

La preistoria narra le vicende umane anteriori all'invenzione della scrittura ed il suo studio si basa prevalentemente sull'archeologia e sulla ricostruzione determinata dai ritrovamenti fossili. È impossibile ricostruire singoli fatti della preistoria. Si possono soltanto delineare i tratti elementari della società umana e l'evoluzione dell'uomo, con grande margine d'incertezza e di dubbio. La storia, invece, narra le vicende degli uomini a partire dall'invenzione della scrittura, datata all'incirca intorno al 3000 a.C. in Mesopotamia e poi in Egitto. La scrittura ha consentito di tramandare nel tempo documenti e testimonianze del passato, consentendo una ricostruzione sufficientemente precisa dei fatti.

E chi può conoscere il valore dei documenti meglio di coloro che quei documenti studiano, schedano, riordinano, per renderli fruibili al pubblico? Gli storici in primis, ma anche gli archivisti che, fra i loro compiti professionali, annoverano il trattamento scientifico delle testimonianze scritte del passato ma anche la loro valorizzazione e divulgazione.

Il valore, perciò, del documento scritto deve essere assolutamente ed universalmente riconosciuto.

Ma.

C’è un ma.

Possono i documenti d’archivio attestare il falso? Qui non parliamo di documenti in senso lato, quali scritti di singoli personaggi o articoli di giornale o altro, ma piuttosto di scritti posti in essere da un ente produttore nel corso di una attività, sia essa amministrativa, politica, economica, assistenziale o altro. Prendiamo il caso dell’Archivio storico comunale di Iglesias. Nel corso delle mie ricerche e del mio lavoro, ormai più che ventennale, sono spesso incappata in documenti che permettevano una ricostruzione storica del passato precisa e talvolta anche ricca.

Ma

Ecco il ma.

Nello studio dei documenti occorre fare una operazione ardua, faticosa, spesso lunga e fastidiosa, quasi dolorosa: leggerli spogliandosi delle categorie del pensiero presente per calarsi appieno (per quanto possibile) nella temperie storica in cui quegli scritti furono concepiti e messi in essere.

Ecco che nel Breve di Villa di Chiesa (statuto della città di Iglesias risalente al XIII-XIV sec.) potremmo stupirci nel leggere la pena, molto severa, comminata ai rei di falsa testimonianza.

L'età di mezzo (Alessandro Barbero)

 

La falsa testimonianza era punita con il taglio della lingua di traverso in modo che “ni vada lo pesso” (andasse via proprio il pezzo di lingua). Vi era però la possibilità di “ricomperare” la lingua, cioè di non subirne il taglio, pagando la considerevole somma di cento libbre di alfonsini minuti entro 10 giorni. Nondimeno, pagata questa somma, il reo doveva essere condotto, “a modo di malfactore”, con un amo conficcato nella lingua, dalla Corte di Villa di Chiesa fino al luogo “unde si fa la justicia” e dove l’amo gli veniva tolto. La pena, oltreché economica, era comunque duplice: dolore fisico e vergogna pubblica. Questa scappatoia però non era valida se la falsa testimonianza avesse provocato qualche pena corporale a chi fosse stato ingiustamente accusato: in quel caso l’unica pena prevista restava la più grave, cioè il taglio della lingua.

La pagina dedicata al reato di falsa testimonianza del Breve di Villa di Chiesa.

 

Significativo che nella Carta de Logu (testo legislativo promulgato da Eleonora d'Arborea alla fine del XIV secolo, diretto a disciplinare in modo organico, coerente e sistematico alcuni settori dell'ordinamento giuridico dello stato sardo indipendente dell'Arborea) vi sia una punizione analoga. Nel capitolo 76 infatti si stabilisce che se qualcuno sotto giuramento testimoniasse il falso, e fosse riconosciuto colpevole, dovrebbe pagare 50 lire entro 15 giorni. Se non pagasse gli verrebbe conficcato un uncino nella lingua e, frustato, sarebbe condotto per tutta la regione sino al letamaio: là gli sarà tagliata la lingua e sarà lasciato andare ma non gli verrà più prestata fede come testimone.

Come interpretare dunque, o comprendere, la gravità della punizione per un reato di tal fatta?

Facendoci contemporanei della cultura del periodo, secondo la quale il giuramento sui sacri vangeli (dunque la verità sotto giuramento) era la base della convivenza civile e contravvenirla significava porsi al di fuori della società (si veda anche la necessità della pubblica espiazione a vantaggio dell’intera collettività).

E cosa pensare delle annotazioni su alcune tessere del personale della Società mineraria Monteponi nel XIX e XX secolo, quando compare, soprattutto in epoca fascista ma non solo, il licenziamento di qualche operaio perché ritenuto scansafatiche? Il caso poteva anche verificarsi, ma occorre ricordare che con il licenziamento venivano puniti anche coloro che non si uniformavano al regime e lo contestavano.

Le fotografie, documenti anch’essi, vanno a loro volta interpretate secondo le conoscenze storiche che abbiamo del periodo in cui sono state scattate. Come non pensare che le fotografie del fondo archivistico Monteponi/Montevecchio, conservate sempre nell’Archivio storico comunale di Iglesias, non siano state architettate a posta, dato che esse venivano commissionate dalla Società Monteponi e da essa sono state conservate nel proprio archivio? Possiamo pensare che la Società volesse rappresentare la realtà storica o non invece celebrare, con quelle foto, le “magnifiche sorti e progressive” dell’industria mineraria che si stava affermando nella nostra zona? Propongo ad esempio foto in cui compaiono bimbi e donne con le scarpe quando sappiamo che in quel periodo la disponibilità di calzature era generalmente limitata.

Impianto di frantumazione della Società Monteponi (Archivio storico comunale di Iglesias).

 

Che pensare delle maestre della scuola elementare di Monteponi che, tutte comprese del loro ruolo di educatrici ai valori fascisti sostenevano campagne di tesseramento dei bimbi, collaboravano alla raccolta autarchica del ferro, della lana e poi delle fedi nuziali, insegnando canti patriottici per creare i futuri eroi per il Duce?

Tutte da condannare perché fasciste? Che dire, in quella temperie, di una maestra che nel 1935 osa scrivere, sui registri scolastici a fine anno, parole di questo tenore?

"Per la disciplina, senza nessuna fatica, sono riuscita a conciliare l'autorità dell'educatore con la libertà dell'educando, non dando mai dei crudi comandi ma con l'amore, la persuasione che riesce a temperare l'autorità, a renderla cara agli educati, ad accrescerla; facendomi acquistare dagli alunni quella stima, rispetto, benevolenza, fiducia senza di cui l'autorità degli educatori non sarebbe riconosciuta né le nostre parole sarebbero persuasive. Non ho mai imposto la mia autorità, perché non c'è peggior cosa dell'autorità che soggioga, che vincola il libero arbitrio. Così gli alunni hanno vissuto accanto a me in un ambiente saturo di libertà della quale non hanno abusato: ottenevo tutto dai miei cari alunni."

La copertina del Giornale di classe della scuola elementare di Monteponi/Iglesias (1931-1932).

 

Insomma: non tutto ciò che si legge sui documenti è bianco o nero. Tante sono invece le sfumature di grigio e, in assenza di adeguate conoscenze storiche, occorrerebbe quanto meno presentare i documenti senza giudizio alcuno o, preferibilmente, fornendo anche le diverse interpretazioni possibili. Io ci provo.

 

   Il Breve di Villa di Chiesa 

 

Della stessa autrice

   Ingiustizie: ieri e oggi a cura di Daniela Aretino Dessì

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Daniela Aretino

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Daniela Aretino Dessì

(Iglesias, classe 1971)

1989  Maturità scientifica presso il Liceo "G. Asproni" di Iglesias;  2003 Laurea in Lettere presso l'Università degli studi di Cagliari;  1993-1995 Diploma di Archivista Paleografa e Diplomatica presso l'Archivio di Stato a Cagliari; 2019 Inserimento negli elenchi nazionali in qualità di "Archivista" di prima fascia; dal 1995 Archivista Paleografa con oltre 25 anni di esperienza sul campo, principalmente  presso l'Archivio storico del comune di Iglesias; aggiornamento continuo anche tramite i corsi dell'Associazione Nazionale Archivistica Italiana; madre, moglie, appassionata  studiosa di Storia e di divulgazione culturale, partecipo a seminari e presentazioni come relatrice e volontaria culturale.

 

I primi passi del fascismo iglesiente

 

 

La crisi economica del 1921 ha autorizzato, in un certo senso, la stretta definitiva della borghesia iglesiente, la quale vede di buon occhio una conservazione dell’ordine prestabilito tramite la repressione assoluta di ogni rivendicazione operaia.

Ruolo di rilievo è quello svolto dal proprietario della miniera di Bacu Abis, Ferruccio Sorcinelli, il quale costituisce l’anello di connessione tra gli industriali e la sottoprefettura di Iglesias, fornendo a quest’ultima fantomatiche voci allarmistiche sull’occupazione delle miniere e sulla costituzione dei consigli, propugnando una linea dura contro socialisti e minatori, colpevoli di essere i fautori del disordine sociale. Sorcinelli alza ancora di più i toni dello scontro, assicurandosi la proprietà de L’Unione Sarda, ed utilizzando le colonne del giornale per instillare nell’opinione pubblica la grande paura del bolscevismo in Italia.

È Lussu a lasciare poi un’ironica descrizione del personaggio: «Più grande aiuto portò al fascismo locale un industriale minerario: il commendator Sorcinelli. Egli era molto noto in tutta l’Isola. Eccezionalmente intelligente, sapeva sicuramente quel che voleva. Era stato sempre un democratico a tinte radicali. Passò qualche mese, e avvenne l’inevitabile. È difficile, in politica, stabilire punti fissi. Un democratico ha in sé i germi di infinite evoluzioni; con impeccabile logica, può ugualmente diventare comunista o fascista. Il commendator Sorcinelli rifletté con calma, e diventò fascista. E offrì un giornale quotidiano al fascismo».

  
Ferruccio Sorcinelli (banchiere e imprenditore), Emilio Lussu (capitano di fanteria), Angelo Corsi (politico riformista)

 

Esaltati dalla stampa di destra, nel marzo 1921, ad Arbus i proprietari terrieri istigano la popolazione a rovesciare il sindaco socialista Raimondo Pani; mentre i primi giorni di aprile avvengono degli scontri fra nazionalisti e socialisti ad Iglesias, in occasione del comizio del nazionalista Luigi Federzoni.

Nelle altre zone rurali d’Italia, i fascisti già si organizzano da mesi un po’ ovunque, mettendo a soqquadro le varie sedi delle organizzazioni proletarie; «liberali e democratici rimangono spettatori piuttosto soddisfatti. L’on. Giolitti favorisce l’impresa». Il disprezzo diffuso in tutto l’ambiente di sinistra per le politiche liberali borghesi, sarà uno dei motivi che spingeranno Giolitti a cercare l’alleanza coi fascisti.

Il primissimo caso in assoluto che testimonia la presenza fascista in Sardegna è riportato da Emilio Lussu, che si trova in quel momento a Villacidro per la campagna elettorale. Si tratta di una sezione costituitasi all’ultimo momento, comprendente conservatori, democratici «e parecchi gruppi operai in gran parte assoldati»; i quali cercano di impedire a Lussu di fare il comizio, ma non si procede oltre i proclami verbali.

 

Ad Iglesias invece l’offensiva squadristica, organizzata e violenta, comincia a prendere corpo a metà aprile ‘21. La reazione di Angelo Corsi e del riformismo iglesiente è quella di invitare i lavoratori a non rispondere alle provocazioni e condannare ogni episodio di violenza da ambo le parti. Intanto però gli squadristi, anche se non numerosi, hanno mezzi per cominciare a seminare il panico nei paesi del circondario, emulando i loro colleghi “padani”. Nel ripercorrere le tappe che portano a questo fallimento, quella di Corsi e delle sue memorie scritte è una testimonianza fondamentale per capire cosa sta accadendo nel territorio iglesiente.

È risaputo dai militanti socialisti che a finanziare le scorribande fasciste sono proprio Sorcinelli e i proprietari a lui vicini. Riporta Corsi: «Al Fascio Italiano di Combattimento d’Iglesias si aggrega la teppa di alto e basso loco. I finanziatori non mancano: le Società Minerarie e non pochi industriali e commercianti della città. La Vieille Montagne, la Pertusola, Monteponi, l’Elettrica Sarda, la Società Fondi rustici, fanno a gara: quattrini, camions, benzina, ecc… Come si vede fondi ed equipaggiamenti ci sono. La bassa teppa è pagata da dieci a venti franchi al giorno».

Corsi riporta come Lussu che, sino alla campagna elettorale del 1921, il movimento fascista in Sardegna ha veramente pochissimo seguito. Gli unici che si danno da fare sono questi avventurieri, politicanti speculatori, associati alle miniere, che usano tutti i loro mezzi per emergere. È evidente l’allusione al già citato Ferruccio Sorcinelli.

Fluminimaggiore, anni venti del Novecento

 

Per le vecchie cricche locali, è l’occasione propizia per sfruttare le «protettive violenze» in ottica antioperaia. Il fascismo ad Iglesias (ma in generale tutto il fascismo sardo) non ottiene nessun tipo di consenso politico, se non dopo la salita di Mussolini al potere; e tutto ciò nonostante le costanti sovvenzioni delle Società minerarie per foraggiare le violenze fasciste. Anzi, sono sia Corsi che Lussu a riportare le parole sferzanti con le quali il Duce definisce i suoi primi seguaci iglesienti: «compagnia malvagia e scempia»; visto il loro recalcitrare di fronte alle dichiarazioni tendenzialmente repubblicane che ancora caratterizzano i proclami mussoliniani in questa fase.

La circostanza viene sottolineata spesso anche da Lussu. Quest’ultimo descriverà in Marcia su Roma proprio il metodo organizzativo che i fascisti usano ad Iglesias: «I fascisti di tutta la zona mineraria non erano più di una cinquantina. Erano tutti operai. Le direzioni delle miniere avevano loro aumentato il salario, esentandoli dal lavoro: sicché, essi avevano denaro e tempo da spendere. Erano capeggiati da due giovani: il signor Otelli e il signor Mocci. L’uno e l’altro per questo lavoro di comando erano pagati dalle miniere». In questo modo dispongono di ampie risorse finanziarie per armi e mezzi di spostamento che non rimangono affatto inutilizzati. «Armati di grossi bastoni, attendevano gli operai all’uscita delle gallerie. Nei primi incontri, gli operai, presi alla sprovvista, ebbero la peggio. Ma successivamente, si capovolsero le parti. I fascisti vennero disarmati e conobbero essi stessi il peso dei loro bastoni. Gradatamente si ristabilì la quiete attorno alle gallerie, e la propaganda e la lotta si restrinsero in città, attorno all’on. Corsi» (ibidem).

 

Lussu descrive le difficoltà con le quali Corsi si muove in città, costantemente bersagliato dagli insulti e dalle aggressioni (sempre confinate al verbale) fasciste: egli è dunque in contatto ed informato sull’azione del leader riformista iglesiente, ed è a piena conoscenza del tipo di elemento sovversivo ed avventuriero, senza scrupoli, che l’industria mineraria assolda, in queste prime fasi, per sedare ogni plausibile ribellismo operaio. Corsi viene preso di mira dai fascisti a partire proprio da questo periodo, nel quale iniziano le dispute verbali violente di piazza fra socialisti e fascisti. Per sottolineare e rivendicare il suo status di moderato, egli non perde mai occasione per precisare che, durante tutta la campagna elettorale, egli e tutti i socialisti hanno sempre avuto un comportamento corretto e gentile con le opposizioni, e di quanto siano stati disponibili alle dispute pubbliche. Nelle sue memorie sottolinea anche il legame di amicizia che lo tiene in contatto anche con esponenti comunisti o massimalisti della zona, come Raimondo Pani, sindaco di Arbus, o il concittadino Giuseppe Pichi.

La campagna elettorale si trasforma in settimane di terrore che vedono la violenza fascista dilagare in tutto il bacino minerario: è la notte del 9 maggio 1921 che Fluminimaggiore conosce i metodi sbrigativi degli squadristi, quando viene assalita e incendiata la sede della Federazione dei minatori, e devastate le case dei socialisti; il giorno seguente l’opera viene poi completata dalla polizia che arresta una ventina di operai.

Riporta Bruno Murtas: «A metà maggio li troviamo all’interno del palazzo comunale, dove mettono a soqquadro i locali, asportano la bandiera rossa, forse dall’ufficio di Battelli, ma qualcuno afferma che era esposta nel balcone, e al suo posto issano quella tricolore».

Persino le celebrazioni del 1° maggio sono state vietate in paese dalla sottoprefettura col pretesto che potrebbero provocare la reazione dei fascisti. Le forze dell’ordine e, in particolar modo prefetture e sottoprefetture, sono inoperosamente complici dei fascisti o, laddove intervengano, lo fanno sempre per arrestare i militanti socialisti e comunisti; gli squadristi stanno bene attenti ad avere le spalle coperte: «come si vede, la teoria della violenza si basa solo sulla possibilità di essere usata con profitto». Insomma, nelle descrizioni di Lussu e di Corsi, il modus operandi dello squadrismo e delle spedizioni punitive del fascismo “sorcinelliano” segue un canovaccio abbastanza stabile ed emblematico. Anzitutto, i fascisti provocano e minacciano pubblicamente i militanti socialisti, che reagiscono verbalmente. In seconda istanza, i fascisti additano le reazioni verbali dei socialisti. Dopodiché, il terreno è pronto: le squadre organizzano a sorpresa la classica “spedizione punitiva” per bastonare, saccheggiare e mettere a fuoco sedi operaie, case di militanti ecc.; per poi dileguarsi rapidamente. Ultimo passo, nelle ore o giorni successivi, l’intervento della Pubblica Sicurezza che, enormemente collusa, opera un “preventivo” e sistematico arresto di massa degli esponenti delle organizzazioni proletarie coinvolte. Questo nei casi in cui l’appoggio delle forze dell’ordine è quantomeno il più mascherato; vi sono numerosi casi, sempre dettagliatamente riportati dai due politici antifascisti, nei quali polizia e carabinieri assistono inoperosi alle violenze di piazza fasciste.

Intanto, sotto il peso dei dissidi interni al socialismo, si sfalda la Federazione dei minatori, che non può che constatare, oltre all’offensiva padronale, anche l’indisciplina sindacale degli operai.

Lo schema tradizionale della pratica contrattuale dei riformisti non può più funzionare perché da parte delle Società minerarie non c’è più alcuna disponibilità al dialogo con il sindacato; e l’alternativa rivoluzionaria, ossia la controffensiva operaia proposta dal comunista Lentini viene osteggiata come avventuristica dal riformismo barricato dietro al “legalismo”; ma non può essere accolta con entusiasmo nemmeno dai minatori, che sono oltremodo abbattuti e scoraggiati dalle recenti sconfitte umilianti. I lavoratori si rendono anche conto del ruolo nefasto delle forze dell’ordine, non ne fanno mistero, ed è lo stesso sottoprefetto che si preoccupa del riflesso che ciò può avere sull’opinione pubblica. Le autorità e gli agenti della forza pubblica sono ormai considerati come i veri protettori e non soltanto gli attenuatori delle violenze fasciste.

Nonostante ciò, le elezioni del maggio 1921 vedono il socialriformismo tenere botta in modo clamorosamente efficace ad Iglesias; ma cosa ancora più sorprendente è la crescita ulteriore del Partito Sardo d’Azione, che si attesta alle soglie del 30% dei voti (Lussu è candidato e viene eletto come deputato al Parlamento).

Lo squadrismo fascista riesce ad intimidire, ad irretire, a impaurire; ma non convince, non ottiene consenso popolare. I suoi proclami sono vuoti per le masse, specialmente quelle politicizzate del Sulcis: il fascismo può incutere timore, frenare le rivendicazioni sindacali ed anche ogni genere di dissenso, ma non può rappresentare la massa dei lavoratori; i quali individualmente se ne discostano. Ciò però di certo non sortisce degli effetti arginanti sulle scorribande e la repressione coadiuvata dalla sottoprefettura.

Quando, nel gennaio 1922, verrà poi arrestata la maggioranza dei militanti comunisti di Iglesias, è smorzata l’attività di una sezione già morente e che per di più sta scatenando i suoi sforzi sulla critica degli errori storici del PSI, più che sul dilagare del pericolo fascista. Il progetto di Pichi di costituire un “fronte unico proletario”, il disperato tentativo di ricomporre le fratture del socialismo per fare da argine al fascismo, fallisce miseramente.

Con la presenza di un pretore dichiaratamente fascista, ad Iglesias l’ultimo insuccesso della difesa organizzata è la costituzione di una squadra degli Arditi del Popolo, già dall’estate del 1921. All’interno dell’organizzazione paramilitare, istituita per rispondere finalmente alle aggressioni fasciste, confluiscono militanti di tutte le forze antifasciste: per la maggiore sono anarchici, ma all’interno vi sono anche comunisti e persino esponenti del riformismo; ma la sottoprefettura avrà gioco molto facile nel disperderne le forze e farli sostanzialmente scomparire già entro l’autunno dello stesso anno. È un desistere decisivo, perché segna l’impossibilità, da parte delle forze antagoniste del fascismo, di avere i mezzi sufficienti per contrastarlo efficacemente anche con l’uso della loro medesima forza.

L’eco di questo fallimento si riverbera anche nel pensiero di Gramsci, il quale, in svariati articoli sull’Ordine Nuovo, constata con disgusto il compromesso demagogico del “patto di pacificazione” fra fascisti e socialisti parlamentari; che in sostanza è la causa della ulteriore stretta su qualsiasi tentativo di ribellione alle violenze fasciste. Per i comunisti, l’atteggiamento “collaborazionista” del PSI è il segno definitivo del tradimento; un’accusa che vedrà puntatasi addosso anche Corsi, dopo avere fatto gli onori di casa in occasione della visita del Re Vittorio Emanuele III ad Iglesias.

Dopo le elezioni, i fascisti non demordono affatto, ed anzi incrementano gli sforzi concentrando i loro attacchi contro le amministrazioni comunali. Di fatto, ora le Società minerarie possono vendicarsi senza remore, avendo a disposizione tutta l’organizzazione dello Stato come esplicito braccio armato. Già durante l’estate del ‘22, il socialismo non è più capace di opporre resistenza in modo coeso al fascismo; piuttosto è evidente che la stampa comunista si preoccupi più di attaccare costantemente Corsi e il riformismo iglesiente, rei di aver svuotato della loro utilità le organizzazioni operaie e di essere andati a patti con gli industriali minerari. Ciò dà un’immagine della completa disgregazione e della rassegnazione che imperversa in tutto il bacino iglesiente: trovare il coraggio per azioni di massa contro il potere schiacciante è impossibile. Nonostante ciò, a riprova della natura endogena del disegno repressivo, dopo il suo primo congresso regionale avvenuto proprio ad Iglesias nell’ottobre, il fascismo intensifica all’inverosimile la sua strategia del terrore al punto che, all’indomani della “Marcia su Roma” viene attuata un’opera di distruzione pressoché totale di ogni opposizione: le reti organizzative di ogni movimento operaio vengono perseguitate ed obbligate al silenzio con subdoli “patti di pacificazione”; i quali colpiscono anche Fluminimaggiore.

Fluminimaggiore, Piazza Gramsci: murale in ricordo dell'aggressione fascista a Salvatore Soddu.

 

Corsi non ha notizie precise, però riporta che «a Flumini, in una zuffa furibonda tra fascisti e operai, ad un fascista di Iglesias, bieca figura, che era stato uno dei più violenti comunisti (io lo ricordo con precisione fra quelli che avevano sequestrato l’ing. Binetti, direttore della Monteponi, e più gli stavano da presso mentre lo trascinavano a Iglesias), a questo fascista, dunque, viene strappata interamente un’orecchia con un morso netto e secco»; considerazione alla quale aggiunge poi: «Il fatto ci fa considerare che solo qualcuno, fra i nostri, si muove e agisce, limitandosi a simili punizioni di carattere biblico!».

Incrociando i pochi dati forniti da Corsi con i numerosi racconti, che forniranno nei decenni successivi i fluminesi, si può ricostruire l’evento in modo più preciso. La spedizione punitiva che i fascisti di Iglesias si apprestano ad attuare è in realtà destinata agli antifascisti di Arbus. Tuttavia, giunti coi sidecar nella zona de Su Ponti nou (una delle strade principali del paese di Fluminimaggiore, per chi arriva da Iglesias), i fascisti iglesienti vengono intercettati da un estimatore che consiglia loro di attendere all’uscita dal lavoro in miniera un militante socialista fluminese che merita, a suo dire, un trattamento speciale da parte delle camicie nere.

La vittima dell’aggressione, Salvatore Soddu, riesce a divincolarsi proprio con quel morso disperato (successivamente verrà individuato dalla Pubblica Sicurezza e sconterà degli anni di carcere per questo), e del quale il fascista porterà i segni a vita. L’orecchio mozzato, a quanto pare, viene trovato e portato via da un bambino del paese; ma poi se ne perdono le tracce.

Un decennio dopo, alla donna di servizio originaria del paese, il fascista senza un’orecchia dirà: «Io non odio né i fluminesi, né quel socialista che mi ha strappata l’orecchia; ma odio quell’uomo che mi ha detto di pestarlo».

    

  

La curiosa storia di questo militante comunista divenuto poi uno dei più terribili e violenti fascisti, mette in risalto una delle caratteristiche essenziali del periodo in questione: le note “crisi di coscienza” (come le identifica ironicamente Lussu); ovvero i cambi di fronte politico che scuotono continuamente i Partiti. Anche Giuseppe Pichi, esponente di assoluto rilievo del Partito Socialista di Iglesias, a seguito della fondazione del Partito Comunista d’Italia tentenna per qualche mese, aderendo dapprima al PCd’I salvo poi tornare nei ranghi del PSI sei mesi dopo. Ed è evidente e diffuso fra tutte le formazioni politiche il clima di disorientamento e ricerca di una collocazione nuova per tanti esponenti che non si riconoscono più nei loro Partiti di provenienza.

Il caso più eclatante è senz’altro quello dell’ex sindaco di Fluminimaggiore, Alcibiade Battelli. Dopo esser emigrato a causa delle persecuzioni fasciste, decide di tornare nel piccolo comune in vista delle elezioni del 1924 come personaggio di spicco della “Gironda” di Enrico Ferri; una formazione socialista ma alleata del fascismo. La reazione della popolazione sarà rabbiosa al punto che il Duce in persona dovrà desistere dal suo progetto di reintrodurre Battelli nel Sulcis-Iglesiente come punto di riferimento del nuovo sindacato fascista. A Buggerru gli operai decidono addirittura di protestare in massa contro l’annunciato ritorno dell’ex sindaco “traditore”; il tutto mentre il Generale Gandolfo, pur di convincere il Duce a tornare sui suoi passi, insinua che dietro il suo ritorno da “amico del fascismo” si celi in realtà la volontà di ricostituire il sindacato rosso.

Tutte queste “crisi di coscienza” non colpiscono invece il socialista fluminese Salvatore Soddu e il sardista Angelo Murtas, i quali collaborano per nascondere la bandiera dei Quattro Mori ricamata appositamente per la Sezione fluminese del Partito. A seguito del rogo imposto dal Podestà di tutti gli oggetti relativi ad altri Partiti, i due amici si prodigano per salvare e custodire al sicuro quel prezioso vessillo. Il simbolo del Partito Sardo d’Azione diviene così il simbolo della Resistenza al fascismo e della fratellanza fra i Partiti antifascisti fluminesi.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. CORSI ANGELO (a cura di MANCONI FRANCESCO), Socialismo e fascismo nell’Iglesiente, in «Documenti e memorie dell’antifascismo in Sardegna, vol. 4». Cagliari: Edizioni Della Torre, 1975.
  2. GRAMSCI ANTONIO (a cura di SPRIANO PAOLO), Scritti Politici. Roma: Editori Riuniti, 1970.
  3. LUSSU EMILIO, Marcia su Roma e dintorni (1ª ed. 1945). Torino: Einaudi, 2002.
  4. MURTAS BRUNO et alii, Contus de bidda nosta, in «Quaderni di Storia Fluminese», vol. 5. Comune di Fluminimaggiore, 2001.
  5. MURTAS BRUNO, Cronaca del Novecento, in «Quaderni di Storia Fluminese», vol. 9. Comune di Fluminimaggiore, 2004.

 

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Alessandro Usai

  

 

Alessandro Usai

(Iglesias, classe 1995)

Nato a Iglesias vivo a Fluminimaggiore.

Mi occupo di Storia sociale e politica dell'Italia contemporanea e in particolare di Storia del socialismo e del comunismo.

2018 Laurea triennale in Filosofa presso l'Università degli studi di Cagliari; 2019 Percorso formativo discipline antro-psico-pedagogiche e metodologie e tecnologie didattiche presso l'Università di Cagliari; 2020 Laurea Magistrale in Filosofia e Teorie della Comunicazione (LM-78);  dal 2020 docente di Filosofia presso una scuola privata parificata.

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