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Passato, presente e futuro delle comunità marginali

Mauro Ennas intervista Marina Muscas per il Blog collettivo iglesiente.

Da sempre attiva in vari ambiti, dall'istruzione alla politica cittadina, impegnata in prima linea sulle tematiche del recupero urbano, nella ricostruzione dei saperi territoriali, nella costruzione di collaborazioni, nella divulgazione e nella valorizzazione storica e culturale. Una vita dedicata non solo all'insegnamento ma anche alla diffusione di conoscenze e pratiche, finalizzate alla consapevolezza ambientale e alla pace. Tra queste esperienze la valorizzazione delle Scuole di Miniera con l'associazione “Scu. Di. Mi.”, in collaborazione con storici, storiche ed esperte/i del territorio, “Il Giardino delle Biodiversità” con il suo mercato dei prodotti di prossimità e tante altre iniziative di pace e cultura territoriale.

Ci piacerebbe che lei ci spiegasse quali sono gli elementi comuni della sua esperienza pluriennale, qual è il messaggio che vorrebbe passasse nella popolazione delle nostre comunità. Quali pratiche dovrebbero essere assorbite e fatte proprie dalle amministrazioni locali per potenziare la consapevolezza e l'intraprendenza dei cittadini e delle cittadine?

La ringrazio, anche a nome del Blog collettivo iglesiente, per avere accettato di rispondere a questa intervista e per il suo impegno costante, a tutto tondo, nel “Comitato per la riconversione (dell'industria bellica) RWM”, con “Il Giardino delle Biodiversità”, nel “Laboratorio Museo Andaus a scola” di Monteponi con “Scu. Di. Mi.” e in altre associazioni del territorio. Le siamo grati/e per il suo impegno nella diffusione della partecipazione civile a favore della cultura della Pace e dell'ambientalismo, attraverso azioni concrete, mirate alla crescita delle nostre comunità e del territorio del Sud Ovest sardo.

Grazie per essersi resa disponibile!

Io ringrazio voi per l’opportunità che mi date di esprimere alcune considerazioni e per il vostro impegno.

 

Innanzitutto potrebbe cercare di ricostruire com'è nato il suo impegno per le tematiche civili, sociali e di cura dell'ambiente? Quali elementi della sua formazione hanno influito nelle sue scelte di vita e di impegno? Ci parli di lei stimolando i lettori con qualche suggestione.

 

Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.

Cedi la strada agli alberi Franco Arminio paesologo

 

L'attenzione è la forma più rara e più pura della generosità.

Simone Weil filosofa

 

Sono nata in una famiglia del popolo di una grande cultura morale che ha conosciuto la povertà, la grande fatica di essere minatori nelle miniere di carbone e in quelle metallifere, con i segni nel carattere e nel fisico della durezza del lavoro, nel respiro affannoso della silicosi, nel piede schiacciato da una frana. Sono nata da un padre di origine contadina, una persona sobria, solitaria e di poche parole, con solidi principi, che aveva dentro i valori della terra e che diceva che un popolo che non si coltiva il suo cibo e in modo naturale, non ha futuro.

Un uomo che ha fatto il minatore per forza, per campare, per mantenere la famiglia. Come migliaia di altre persone sradicate da una cultura millenaria contadina e pastorale per scavare minerale. È successo qui come altrove, ieri e oggi. Parte di una generazione di uomini e donne cresciuti tra rinunce, fatiche, guerre che ha voluto che i propri figli non parlassero il sardo e andassero a scuola per allontanarli dalla miniera.

Ho vissuto il dopoguerra sardo difficile, denso di speranza ma incapace di reagire all’invasione e alle scelte che altri hanno fatto sulle nostre teste, inseguendo miti di modernità e di progresso che spesso ci hanno solo avvilito. Si cresceva con un senso profondo del dovere, della responsabilità, del servizio. Le parole erano poche, le difficoltà relazionali tante, ma tanti erano così e ci si ritrovava provando a riscattarsi collettivamente. Idee schematiche, anche ottocentesche, ma anche tanti semi fertili di nuova vita.

La miniera l’ho vissuta e ne avevo il sapore delle cose belle di bambina libera che giocava tra le discariche, che la scuola nel bosco la viveva tutti i giorni, che conosceva la comunità educante e di mutuo aiuto, ma anche la durezza e i silenzi di un padre segnato da una guerra che gli aveva tolto sette anni di vita e dato dolore, ma anche un pensiero libero da tanti pregiudizi e ispiratore di pace.

Sono stata una ragazzina complicata, che come tanti altri vestivano di roba americana e foderavano tacchi del calzaturificio nelle sere con tutta la famiglia; chiusa nei suoi silenzi e nelle sue fantasie, che ha trovato nella scuola un ambiente socializzante per dare ragioni alle proprie difficoltà, una cultura del ‘68 portata da professori giovani militanti, preparatissimi, umani, collaborativi. E scorci di una pedagogia del popolo da Mario Lodi a Don Lorenzo Milani. Sono cresciuta comunque come una persona molto sensibile, anche per questo contesto, e quindi diciamo che i grandi temi delle difficoltà del mondo e delle sofferenze delle persone mi hanno attirato da subito, volevo fare l'assistente sociale in Africa, volevo andare ad aiutare le persone e quindi la politica (come impegno e responsabilità civile di ciascuno di noi) mi ha convolto da giovanissima, e anche a scuola sono diventata una che, nonostante la timidezza, organizzava e partecipava in modo diretto.

Insieme a tanti ho partecipato alle serate in dei muretti di piazza Sella dove ritrovarsi, sentirsi vivi e raccontarsi nella voglia di fuggire dal quotidiano e trovare modo di raggiungere grandi ideali. Ho trascorso serate intere in stanze dense di fumo e di operai sfruttati e padroni da sconfiggere in una Lotta quasi Continua; e poesie di cantautori cantate sottovoce che esprimevano il nostro disagio, la nostra malinconia, la paura e la voglia rivoluzionaria di essere felici insieme.

Oggi mi sento di dire che allora abbiamo anche fatto tanti errori, abbiamo cercato il cambiamento soprattutto fuori da noi e abbiamo cercato di resistere, ma con difficoltà, in una povera e discutibile democrazia e in un consumismo devastante. Abbiamo portato, con milioni di persone nel mondo, i temi del nostro rapporto con l’ambiente, della nostra eccessiva impronta ecologica già dagli anni ottanta, ma dovevamo parlare di meno e agire di più nelle scelte individuali e collettive.

La miniera l’ho conosciuta poi come insegnante nelle frazioni minerarie (Nuraxi Figus, Nebida, Bindua) dove sono andata alle prime armi come maestra e lì ho potuto recepire e vedere nei segni tangibili una cultura che forse nei millenni ha agevolato una concezione dell’ambiente, e del territorio profondamente errata che considera la terra estranea a noi stessi, da forare, svuotare e invadere di discariche, residui tossici, inquinanti; che considera il paesaggio da deforestare e riforestare senza identità naturalistica. Una cultura che ha considerato l’ambiente come estraneo da noi, in una visione solo utilitaristica e predatoria delle sue risorse. E noi stessi siamo stati considerati da spremere e buttare via. Ma non ho visto solo le rovine e le difficoltà, ma anche una progettualità ancora embrionale, ma carica di speranza e anche una serie di transizioni realizzate prevalentemente da donne e da una natura che si riprende i suoi spazi.

Sono stata un’insegnante, una maestra molto impegnata in un mestiere bellissimo e importante che deve essere fatto con molta professionalità, umanità, umiltà. Ho così avuto il privilegio di imparare tanto dalle bambine e dai bambini, dalla loro innocenza, dalla loro creatività e richiesta di coerenza. Ho iniziato ad insegnare in una stagione di forte rinnovamento da una scuola classista e borghese (rappresentata così bene in "Lettera ad una professoressa" della scuola di Barbiana di Don Milani).

Per anni mi sono occupata di progettazione di sistema, di progetti educativi che ponessero la scuola all’interno del contesto più generale, progetti di ricerca di una pedagogia della vita affascinata dai popoli indigeni, dalla Sardegna più nascosta e primitiva, dalla natura.

È stato il periodo dei moduli, del lavoro collegiale, del coinvolgimento dei genitori nella gestione democratica, del grande programma di formazione capillare con attività laboratoriali dove ti confrontavi e crescevi con tutte/i. La mia è stata una ricerca continua per migliorare gli strumenti pedagogici e didattici e anche psicologici in mano agli insegnanti. Era la scuola dell’autonomia che lasciava ampi spazi alla sperimentazione. E così abbiamo progettato per e con il territorio, con tanti percorsi integrati e collegiali con l’obiettivo di prenderci cura di ogni singolo bambino cercando di non medicalizzare le difficoltà e le diversità, ma affrontarle con gli strumenti pedagogici, valorizzandole. Abbiamo avvicinato la scuola dell’infanzia alle politiche di prevenzione precoce della dispersione scolastica portando in Sardegna importanti esperienze (da Bortolato, alla Lucangeli, agli studi fonologici).

Negli anni, gli approfondimenti personali e le mie relazioni nel territorio con varie associazioni hanno rafforzato in me l’interesse e la priorità da dare ad alcune tematiche, centrali, quali appunto la pace, l’ambientalismo e le relazioni con il presente, il passato, il futuro nella costruzione della nostra comunità.

Negli ultimi anni ho cercato di ribaltare l’abbandono e il pensiero depressivo spesso presenti con la ricerca della bellezza, della grandezza, della vita che questi nostri ambienti avevano nascosti, cercandole ogni giorno con i bambini e la bambine nelle piccole cose, nel visibile e nell’invisibile, nella conformazione delle nuvole come nella forma armoniosa di un albero, nell’azione instancabile di un lombrico, nella stupefacente bellezza di un fiore che sboccia, nella meraviglia che poteva nascere nel volto di un bambino nel vedere una farfalla venire alla luce, con tante trasformazioni, da un bruco.

La sua passione per le questioni ambientali è una passione antica, come si è evoluta e quali sono le conclusioni che è riuscita a raggiungere

Teresa (Piras) mi ha regalato tanti anni fa il libretto “L’orto dei bambini” di Capra, il teorico della fisica quantistica che tanto bene ha spiegato nel suo libro “Il tao della fisica”, come la fisica moderna sia arrivata ad alcune conclusioni simili a quelle dei popoli antichi in particolare dell’oriente, che sapevano immergersi nei segreti del cosmo.

Quel libro spiegava con parole semplicissime la circolarità della natura e dei cicli della vita: I ritmi, le stagioni, le reti ecologiche, chimiche, fisiche, la potenza energetica del sole che l’albero è riuscito a catturale per farne cibo per tutti noi. Un sapere connesso e complesso. Il concetto basilare della vita opposto all’economia lineare che abbiamo creato. Da allora ho realizzato, (con l’aiuto importante di mio marito Alberto) decine di orti, con i bambini protagonisti, che zappavano, mettevano la paglia, seminavano, curavano le piantine e donavano loro l’acqua, raccoglievano i frutti, allevavano i lombrichi, spiegavano ai genitori il valore di questa loro esperienza, desideravano da grandi di prendersi cura della terra e anche diventare contadini ed è molto bello che per alcuni di loro sia stata l’esperienza più importante del loro percorso scolastico nella scuola primaria

Ma in questi ultimi anni quel libretto “L’orto dei bambini” ci ha svelato altri segreti anche grazie a prof. Massimo Lumini: il filo spezzato con la natura della nostra cultura, economia, scienza, letteratura, matematica che ha generato una dissociazione da ciò che abbiamo chiamato ambiente, qualcosa che abbiamo considerato al di fuori e al di sotto di noi. E così l’ambiente l’abbiamo inquinato, sfruttato in un sistema predatorio orientato solo al profitto, all’iperproduzione per l’iperconsumo, alla competizione, creando un’economia senza etica, una tecnologia senza anima e una cultura cieca. E una grande sofferenza in tutti gli ecosistemi compreso quello umano, con tanta povertà materiale e spirituale.

Quel filo spezzato è stato però ricucito da alcuni pensatori ribelli, menti affascinanti: Leonardo, Klee, Munari, Mancuso, Capra e tanti altri. Li abbiamo trovati a scuola e nella nostra attività culturale. E ci hanno ispirato nella nostra quotidianità perché un’economia che crea (benessere, lavoro, relazioni) non può nascerà senza una cultura e una scuola che crea.

Perché tra l’altro non abbiamo solo un’emergenza climatica, ambientale, sociale, occupazionale, ma anche un’emergenza educativa e culturale.

Mi dice mia figlia che il fiore non chiede permesso per sbocciare in tutta la sua bellezza! E invece noi abbiamo migliaia di ragazzi e ragazze che non riescono a sbocciare, spesso chiusi in se stessi, schiavi di surrogati di felicità e socialità, analfabeti emotivamente e nell’uso delle mani. Negli ultimi anni di insegnamento con Elisabetta, Patrizia, Ombretta e tante altre abbiamo lavorato tanto per creare una scuola produttiva e di senso e immergerci, con le nostre classi, nello stupore della vita convinte che saranno sicuramente le nuove generazioni a trovare le soluzioni per essere una specie che si rigenera e crea una nuova civiltà.

Dai laboratori sulla nostra flora e fauna, sul nostro cibo sano e buono, sugli orti sinergici, sugli orti spirituali, sull’essere bionieri, sulla grandezza del lombrico, siamo cresciuti insieme alunni, maestre, genitori, contadini, compagni di strada e abbiamo fatto circolare saperi, sapori, rispetto per tutti gli esseri viventi, amore e gioia.

E oggi che sono andata in pensione continuo presso “I Giardini della Biodiversità” ad occuparmi di queste cose con tante/i compagne/i di viaggio. Non basta cambiare la fonte d’energia, non basta fare la raccolta differenziata, occorre creare centinaia di esperienze di democrazia di prossimità dove riappropriarci del nostro rapporto con gli elementi essenziali della vita e trovare gioia nel costruirli, curarli e apprezzarli insieme.

Mi sono comunque convinta, nella mia esperienza, che sia necessario superare espressioni come ambientalismo che creano categorie di pensiero e pratiche sociali e culturali troppo ristrette. Credo che l’esperienza umana su questa terra in particolare nella nostra più recente civiltà occidentale abbia creato una dissociazione profonda con il senso e i presupposti della vita. Io m’incanto vedendo la poesia della natura, la sua bellezza, la sua forza, la sua capacità di governarsi producendo i presupposti della vita anche in maniera democratica. Occorre recuperare un rapporto sano e non parassitario con gli altri esseri viventi. Occorre costruire insieme un pensiero rigenerativo. E l’ambientalismo non può esprimere tutto ciò. Quello che dobbiamo coltivare, far esplodere, è la vita, l’amore per la vita in qualunque forma si manifesti nella natura, nella terra, in noi. Sentirci parte di un unico corpo vitale. E solo la fraternità, la compassione, la reciproca umanità, l’amore potranno dare anima e senso a questo essere oggi su questa terra. Solo la nonviolenza nelle relazioni reciproche e nelle relazioni con la natura potranno farci vivere un salto di civiltà. È una ricerca profonda, anche piena di contraddizioni, ma che ci apre a tutte/i.

Quali sono le sue influenze culturali nella costruzione di una cultura di pace?

Una madre accogliente e dolce, il mio carattere anche difficile e schivo, immersa nel mondo delle idee, dei progetti, la mia timidezza mi hanno portato a maturare grandi capacità di ascolto e ricerca, di rappresentanza di istanze collettive, quindi a non cercare il primo posto, a lavorare per la collettività, a saper rappresentare le esigenze di tante persone. Costruire progetti collettivi è stato per me un modo di “vedere oltre”, di organizzare la realtà secondo una visione, un desiderio, una finalità ideale per poi dare corpo alle azioni che potevano concretizzare questa idea che diventava così via via ispirazione e aspirazione collettiva. Magari realizzavi (come comunità, come scuola, come associazione, come gruppo, come singolo) solo una parte di ciò che desideravi ma così le piccole azioni quotidiane si riempivano di senso e di forza perché orientate verso mete alte e profonde. Ho avuto relazioni privilegiate con centinai di persone con cui abbracciavo voglie e sfide di esserci, di esprimersi con libertà, di contare e costruire realizzando anche difficili modifiche nel senso del vivere quotidiano o nella realtà comune. Abbiamo così dato il cuore al desiderio di un mondo diverso e più giusto. E in queste relazioni costruttive è maturata la cultura della pace.

Ho collaborato, non senza difficoltà, con tante “prime donne” maschi, ma nella seconda parte della mia vita ho scoperto l’apporto vitale del femminile e il suo centrale contributo in una cultura rigenerativa e pacifica. E sto scoprendo il femminile nella storia di società pacifiche, giuste, egualitarie come quella emersa dagli studi archeologici di Marija Gimbutas. E oggi le donne stanno dando un apporto essenziale nel rinnovamento. Ciò mi ha fatto sentire una donna che ha attraversato questi anni in modo profondo cercando con umiltà di sostenere progetti e posizioni, spesso minoritarie, legate a grandi ideali sempre rivolti al riscatto e al protagonismo degli ultimi fossero piccoli alunni, minatori o cernitrici, esseri viventi come anche gli alberi esclusi dalla nostra cultura ignorante e antropocentrica.

La cultura della pace mi viene quindi dalla mia esperienza familiare, sociale, culturale e dalla mia formazione pedagogica. Mi viene dalle mie maternità e dalla relazione vitale con le mie figlie. È stata poi rafforzata da incontri formativi nei percorsi del "Centro Sperimentazione Autosviluppo" che mi ha fatto conoscere il movimento nonviolento, dalle partecipazione alle nostre iniziative come “Scuola Civica di Politica - La Città in Comune” con l’antropologo Luca Navarra e la lettura collettiva del libro "Contro l’odio" premio della Pace dei librai tedeschi del 2016, alla partecipazione ad alcune incontri online organizzati da Enrica Ena con l’esperienza “Il cambiamento nasce da dentro”. Sono stati anche gli studi di mia figlia Giulia ad accrescere la mia consapevolezza del valore di esperienze di riconciliazione come quella di Nelson Mandela nel Sudafrica.

Nella ricerca di luoghi e simboli collettivi nella nostra realtà quotidiana, il colle del Buon Cammino è diventato il nostro riferimento costante nel mese della pace, di San Francesco e di Gandhi, per ritrovarci insieme in centinaia tra bambine, bambini, genitori, insegnanti e ricercare il senso di una comunità che si confronta con la risoluzione nonviolenta dei conflitti fuori e dentro di sé. Per dieci anni ho organizzato la Marcia della pace e della fratellanza fra persone, culture, popoli al Buon Cammino per l’ottobrata seguendo il pensiero di Maria Montessori che diceva che “compito dei politici è difendere la pace, compito degli educatori è costruirla”.   E questo percorso rende doverosa la mia partecipazione al Comitato per la riconversione della RWM, convinta che la mia e la nostra coscienza collettiva non può permettere che si lavori per costruire armi e bombe per la guerra e che sono anche le industrie delle armi ad alimentare la guerra e noi non possiamo tenerci questa responsabilità. La comunità tutta, il potere decisionale, politico ed economico può orientare altre scelte nel riconvertire il nostro territorio a lavori buoni e che tutti possano svolgere senza vergogna. Io credo che ciò darebbe a tutti noi una forza enorme costruttrice di energie, risorse, coraggio, benessere, fiducia nel domani senza guerre e sofferenze inutili, ma anche più giusto nel rispondere alle esigenze di base di tutti, per esempio ad avere un lavoro. Ma occorre ribellarsi e scandalizzarsi, occorre non essere conniventi con una cultura di morte e con una potenza economica, quella bellica, che condiziona tutto. Occorre dire no alla guerra, costruendo la pace. Dovevamo farlo anche per la situazione in Ucraina e tutte le altre guerre e dobbiamo continuare a farlo ogni giorno, non facendoci schiacciare da un pensiero unico devastante e primitivo. Non è facile, ma è l’unica strada.

Ma le scelte dall’alto non arrivano e allora dal basso sosteniamo esperienze come WarFree!

Lei, insieme a poche altre persone (quasi esclusivamente donne) è riuscita a comprendere profondamente che alle manifestazioni deve seguire un progetto concreto di condivisione ed espansione dei saperi e delle pratiche quotidiane. Come pensa possa essere espanso il progetto che avete attivato all'interno della rete delle associazioni, con il “Mercatino delle biodiversità”? È possibile individuare altri spazi cittadini e collaborazioni per estendere il vostro progetto? Come pensate, se ci pensate, a una diffusione capillare delle pratiche ambientali e della Pace nelle nostre comunità?

Ho sempre avuto una visione di rete culturale e di sistema e tutte le iniziative anche come insegnante hanno collocato l’azione pedagogica e le finalità della scuola all’interno degli obiettivi della società più ampia. L’esperienza da assessora, anche se breve, è stata un grande privilegio che ha esteso il mio orizzonte (anche se io sono convinta che la politica è in mano a tutte/i e tutte/i hanno la responsabilità di proporre e partecipare alla gestione dei beni pubblici). Da allora, proposta da quattro donne, è nata l’esperienza della “Scuola Civica di Politica - La Città in Comune”, con le sue numerosissime esperienze formative, ma poi abbiamo voluto fare un salto di qualità con persone che hanno significato molto nel territorio dal Centro sperimentazione autosviluppo, a Gennarta. Abbiamo comunque collaborato e stiamo collaborato con tante associazioni per esempio l’associazione Consultiamoci. Abbiamo voluto realizzare un progetto concreto con la gestione, ormai già da cinque anni, del sito culturale della chiesa altomedievale del Salvatore con il suo giardino. Quel sito rappresenta un simbolo, (di rinascita e sperimentazione, di riflessione profonda e ricerca interiore, di piccole comunità, di vita sobria in armonia con i cicli della natura, d’incontro e dialogo radici della nonviolenza, di paesaggio agreste, della terra, della biodiversità, della comunità del cibo, di una nuova alleanza tra produttori e cittadini) che si irradia poi nel territorio e oltre. Noi diciamo che abbiamo attivato non un Mercato ma una comunità, la comunità “Saludi e Trigu!” che va oltre il limiti di quel sito. Anche se in piccolo, siamo un punto di riferimento per tantissime persone.

E il nostro mercato è stato così apprezzato come presidio di valorizzazione delle biodiversità alimentari da essere inserito nell’app realizzata da Laore dell’itinerario dell’agro-biodiversità nel Cammino Minerario di Santa Barbara.

Questa nostra esperienza, che ha voluto promuovere tempi e luoghi d’incontro dove raccontarsi e cooperare, sperimentare altre forme di convivenza che superi l’infelicità di una economia di mercato e il controllo sulle nostre vite realizzato anche con le nuove tecnologie, non è nata dal nulla, ha una lunga storia di pratiche di sostegno ai nostri produttori, di gruppi d’acquisto e poi abbiamo visto che nel mondo tanti stanno agendo come noi e stanno costruendo esperienze di valorizzazione dei beni comuni dove stanno maturando nuove concezioni della condizione umana e della vita. “L’umanità in movimento richiede nuove forme di pensiero, nuove sensibilità: in sintesi il racconto di una dimensione esistenziale nuova, che per ora esiste più come esigenza emergente. Una volta messa in luce, è comunque un’urgenza che va assecondata: non c’è tempo da perdere”. (Così scrive il prof. scrittore Sandro Muscas nel suo libro “La vita non basta”).

Certo dobbiamo estendere queste esperienze partecipative che hanno un grande valore ambivalente come obiettivi e come metodo.

Per quanto riguarda gli obiettivi, l’olocausto ambientale (come lo definisce Carla Benedetti) ci conduce a sviluppare un vero e forte sentimento di emergenza. Occorre agire radicalmente e presto. Subito

E la condizione umana e della terra ci spinge ad agire avendo una visione olistica e cosmica.

Ho letto questa estate “Oltre le passioni tristi, dalla solitudine contemporanea alla creazione collettiva” di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista di origine argentine che ci invita ad essere all’altezza della nostra epoca postmoderna che è andata oltre all’esilio dell’uomo dalla natura arrivando ad una cattura globale del vivente a beneficio di macro organismi automatizzati. C’è, secondo il filosofo, una colonizzazione di tutte le funzioni vitali e una medicalizzazione della vita che rende patologica qualunque sofferenza esistenziale. C’è un vissuto di impotenza che possiamo scardinare solo con l’azione collettivo fonte di gratificazione e di gioia, accettando la fragilità, il limite l’imperfezione e il lato oscuro dell’esistenza e scommettendo sull’amore anche nel nostro progetto politico.

E allora è compito e obiettivo di tutta l’umanità intera, e di ciascuno di noi,   generare una società o meglio civiltà che abbia come finalità prima la cura di ogni essere umano e del mondo naturale intero.

Io credo che tali argomenti sono tanto centrali oggi che dovremmo fermarci e parlare solo di questo e trovare e costruire un progetto comune sinergico che metta insieme tutti gli aspetti per farci sentire vive/i, protagoniste/i, padrone/i del nostro futuro. Tutti dovrebbero essere orientati nel loro quotidiano a cercare insieme le soluzioni migliori per aiutarci a tutelare le trasformazioni vitali (nel paesaggio, nella abitazioni, nel cibo, nel lavoro, nell’energia, nel divertimento, nel riposo, nella ricerca della salute) per difenderci da trasformazioni disastrose ormai inevitabili e cambiare rotta dimezzando la nostra impronta sul pianeta.

Per quanto riguarda il metodo quindi nella nostra realtà ciascuno naturalmente dovrebbe fare la propria parte, sarebbe bello se ci sentissimo un organismo unitario che converge su alcuni obiettivi comuni, valorizzando le differenze e in qualche modo accettandole, ma arricchendo le nostre scelte individuali e collettive con l’apporto di tutti.

Gli strumenti sono la partecipazione diretta con un atteggiamento di accoglienza e dialogo, ma anche la ricerca del meglio, della competenza, del valore.

Noi vediamo concretamente che le esperienze si possono espandere e anche collegare per rafforzarsi.

Le esperienze migliori sono quelle partecipate e con visioni d’insieme. Oltre a noi, Normann, è un esempio dove i volontari della comunità stanno ripulendo i percorsi da fare nella montagna e ripristinando i passaggi anche dei minatori; il cammino di Santa Barbara è una bellissima realizzazione, ma pensiamo anche alla rete di “Warfree, Liberu dae sa Gherra”. Ma ci sono tantissime persone con tante energie positive.

La valorizzazione della storia mineraria passa dagli archivi storici e dalle storie personali, rilette sotto una nuova luce. Cosa ci insegnano le esperienze tratte dagli archivi delle scuole di miniera e in modo particolare della scuola di Monteponi? Come risponde la popolazione alle vostre iniziative di divulgazione?

Negli anni sono state tante le esperienze didattiche portate avanti di diretto impegno sui temi che investono la qualità della vita quotidiana: il diritto al gioco, la qualità del nostro cibo e la sua origine, la tutela e l’estensione del verde pubblico, la necessità di produrre meno rifiuti e di riciclarli, l’incontro positivo con altre culture, non avendo paura di conservare una propria specificità sarda o di contaminarsi, la valorizzazione critica della cultura mineraria, di ciò che siamo, proponendo anche forme laboratoriali - museali come, a Monteponi, il museo dei bambini delle comunità minerarie.

Il Laboratorio Museo dei bambini della scuola elementare “Andaus a scola” è nato vent’anni fa, come museo della memoria della scuola e dell’esperienza scolastica, dei bambini che hanno lavorato in miniera ieri e oggi, un museo laboratorio che si proietta verso il futuro “prendendo La terra in mano” come pedagogia e filosofia. Un esempio di luogo creato dalla comunità al servizio della comunità, stimolo per costruire la rete museale di una città che dovrebbe essere educativa.

La sua realizzazione è stata un’esperienza molto bella, partecipativa, dal basso, che ha coinvolto centinaia di persone. Nel 2002, esaurita la frequenza nella scuola elementare di Monteponi, la comunità scolastica del terzo Circolo didattico ha proposto che diventasse un Museo laboratorio. Io mi sono battuta con molta convinzione per questo, perché rimanesse questo presidio di memoria e ricerca pedagogica. Da allora migliaia di bambini e bambine nei piccoli banchi di legno dell’aula scolastica degli anni cinquanta, hanno scoperto, sperimentando metodi di ricerca storico-archivistica, la storia mineraria della città di Iglesias e del territorio, hanno conosciuto il lavoro dei bambini nelle nostre miniere di fine ottocento e in quelle di oggi in tutto il mondo.

Oltre le unità espositive “Bambini a scuola” e “Bambini al lavoro”, nel piano superiore, l’associazione Scudimi con l’apporto di professionisti e il contributo del Comune di Iglesias e della Fondazione Banco di Sardegna, ha realizzato i laboratori del saper fare, che rendono viva la missione del Museo Laboratorio di cura della salute del Pianeta e della Formazione permanente.

E queste memorie vengono continuamente arricchite, infatti all’interno dell’attività del Museo Laboratorio si sta ricostruendo con fonti storiche di vario genere (archivio fotografico, archivio delle memorie orali, archivio dei documenti, archivio dei materiali didattici delle varie epoche), uno spaccato della vita dei bambini e delle comunità. L’ultima ricerca sui registri scolastici con le cronache curate dalle maestre nei primi anni ’30 del secolo scorso è diventata un libro a cura della dottoressa Daniela Aretino, nostra collaboratrice fin dai primi anni di attività. Una pubblicazione, sostenuta dall’amministrazione comunale, molto apprezzata e queste ricerche del passato si affiancano agli incontri di pedagogia e didattica innovativa che rivalutano e divulgano l’ecopittura del docente Massimo Lumini, e ci portano a riscoprire figure centrali nella storia della pedagogia e della didattica a partire da Celestin Freinet, Mario Lodi e Gianni Rodari con la collaborazione della studiosa di letteratura per l’infanzia Vittoria Negro.

Il progetto culturale, didattico, turistico trova molta rispondenza nell’attività con le scuole e negli incontri con la città e merita di proseguire.

La metafora   è quella di “mescolare le infanzie” come dice l’antropologo Pietro Clemente, le nostre, quelle degli antenati, dei nonni, dei vecchi minatori e quelle dei bambini di oggi e di domani e ancora quelle dei bambini di altre culture, perché non c’è un solo modo giusto di essere bambini e dobbiamo far crescere insieme le possibilità per l’infanzia di avere spazi e modalità proprie per conoscere, apprendere, creare, sperimentare la collaborazione e l’autonomia.

Di cosa hanno bisogno le comunità, marginali come la nostra, per gestire il proprio futuro? Quali strumenti e quali obiettivi?

Ho conosciuto da poco il termine comunità marginali e ho visto che viene utilizzato per indicare comunità considerate povere ed emarginate, ma che si stanno dimostrando portatrici di germi di un futuro, anche come prefigurazione ecologica cioè la coerenza tra la pratica quotidiana e gli obiettivi a lungo termine. Luoghi di lotta per tutelare i territori in cui le comunità vivono e costruire la cosiddetta "economia della risonanza" (amplificazione di esperienze che crescono e si espandono come le onde sonore) che si contrappone alla polarizzazione sociale che ci richiude in bolle confermative, Territori marginali dove potrebbe essere più facile promuovere gruppi di sviluppo sociale dove fare le cose insieme, darsi obiettivi che immaginano e prefigurano un futuro, già nelle azioni dell’oggi. Scateniamo questa immaginazione collettiva che riassume idealità e responsabilità.

Siamo immersi, scusate se lo ripeto ma penso che venga troppo sottovalutato, in una crisi umanitaria ed ecologica drammatica, che pensavamo rimandata nei decenni e che invece si sta manifestando così pesantemente già da ora. Nonostante ciò, tutto va avanti quasi come nulla fosse. E non sappiamo risolvere i conflitti se non con la guerra che dovrebbe essere rifiutata da tutti a priori, costringendoci a cercare altre strade.

Ci siamo chiesti come anche in questo territorio dare un contributo a questa profonda trasformazione necessaria e insieme costruire un’economia duratura, sostenibile, rigenerativa? Prima di tutto con una grande autoconsapevolezza di ciò che siamo e siamo stati e vogliamo essere- Assumendoci la responsabilità che è diversa dalla colpa, mi insegna mia figlia. Se non ci assumiamo le responsabilità non cambiamo, non ci evolviamo e non esercitiamo il nostro potere.. Sentiamoci tutti dentro un grande movimento per la rigenerazione. Noi siamo l’ambiente e dobbiamo sostenere tutti i processi vitali a cui siamo collegati, la salute dell’ambiente è la nostra salute. L’abbiamo capito molto bene con la pandemia e abbiamo anche sperimentato che se rallentiamo le nostre attività, in poco tempo possiamo anche cambiare rotta e ridare vigore e nuova vita agli ecosistemi naturali e alla rinascita.

Le nostre miniere raccontano anche di un grande movimento operaio che ha combattuto per riscattare le proprie condizioni. E c’è un grande protagonismo oggi in questo territorio di tante donne, soprattutto, e di uomini per costruire una visione del futuro, di autosviluppo.

Qualche anno fa la nostra attività di Scuola civica di politica si è concentrata per molti mesi sullo studio di una ricerca approfondita sullo stato del nostro pianeta. Un libro di Naomi Klein dal titolo “Una rivoluzione ci salverà perché il capitalismo non è sostenibile. Naomi nel suo libro ci esprime il valore di trasformazione profonda che nel passato hanno avuto i grandi movimenti di massa come per esempio quello contro la schiavitù.

La loro efficacia partiva prima di tutto da obiettivi chiari, cosa che i grandi movimenti di massa si devono ancora costruire oggi.

C’era la consapevolezza, in quei grandi movimenti, di cambiare i valori culturali e così esponevano i sogni in pubblico, mostravano all’umanità una versione migliore di se stessa, liberavano l’immaginazione politica e provocavano un rapido cambiamento nella percezione di ciò che era possibile. E non avevano paura di adottare il linguaggio della moralità, di mettere da parte gli argomenti pragmatici basati sull’analisi costi/benefici e di parlare di giusto e di sbagliato, di amore e di indignazione.

Occorre aprire lo spazio per un grande dibattito pubblico sincero non solo per creare un contesto politico che ci consenta di ridurre drasticamente le emissioni, ma anche per affrontare quei disastri che ormai non possiamo più evitare.

Gramsci insegna che una crisi non diventa storicamente generativa fino a quando non viene vissuta come tale e si decide di agire per cambiare l’ordine sociale, economico, i paradigma culturali. Ecco l’importanza della consapevolezza. Lasciamo perdere tutto ciò che non è importante, andiamo all’essenziale e lavoriamo insieme, tutti insieme. Nessuno si salva da solo.

Nel loro libro “Il nostro cibo”, per la sovranità alimentare della Sardegna, che presenteremo all’interno del nostro Mercato nei prossimi mesi, Maurizio Fadda e Fabio Parascandolo esprimono una sintesi   che rappresenta un’idea di prossimo futuro per cui vale la pena di continuare ad impegnarsi

Le comunità che vorremmo

… sarebbero paesi e città con abbondanti superfici di verde urbano gestito da tecnici preparati e sensibili che lo considerano un bene comune della collettività e non un arredo urbano “che se fosse di plastica sarebbe perfetto”.

Ciascuna di queste comunità locali dovrebbe avere intorno a sé una rete di piccoli agricoltori e allevatori biologici e consapevoli, colti e preparati, anche se non obbligatoriamente inquadrati in sistemi ufficiali di certificazione della qualità (meglio sistemi di garanzia partecipata e relazioni di conoscenza tra produttori e consumatori). Gli agricoltori produrrebbero la quasi totalità degli alimenti per la comunità in cui abitano e delle reti di coltivatori diretti potrebbero, con il supporto di istituzioni pubbliche, conferire materie prime alimentari di produzione locale a microindustrie e laboratori distrettuali di trasformazione.

Ognuno di questi paesi o quartieri urbani potrebbe avere uno o più mulini in pietra e degli agricoltori locali dovrebbero coltivare il frumento intorno agli insediamenti (il grano costituisce storicamente il 70/75% della nostra alimentazione di popolazioni mediterranee); la gente potrebbe inoltre cuocersi il pane o altri prodotti da forno in forni comunitari rionali, "La legna per gli stessi dovrebbe ove possibile essere fornita da ciascun Comune con la gestione di Piani di forestazione dei terreni comunali più scoscesi e dei terreni meno fertili e a rischio erosione”.

Questi sono gli obiettivi essenziali oggi e io credo che se veramente ci fosse un piano organico, integrato, partecipato, creativo, condiviso che pone insieme tradizione ed innovazione e il benessere dei cittadini e della terra, riusciremo a crearci un’economia e una società più giusta.

Ci sono nuovi progetti che vuole condividere con noi?

Il mio impegno, insieme naturalmente a tante altre persone con cui condivido ideali continua e si rafforza nella direzione degli obiettivi che ho detto.

Mi è piaciuto sempre scrivere e ho realizzato tantissime piccole pubblicazioni quali sintesi di attività scolastiche o culturali. Sto ora completando, sempre collaborando con tante persone, un lavoro di ricerca che mi auguro diventi una pubblicazione entro ottobre, su alcuni giardini di Iglesias, pubblici e privati. Questa ricerca “Giardini della città di Iglesias”, multidisciplinare, e non certo esaustiva rispetto alla ricchezza che Iglesias possiede, nasce dall’impegno costante nel tempo di alcune associazioni   del progetto “I Giardini della Biodiversità” (Scuola Civica di Politica, ASD Gennarta, Centro Sperimentazione Autosviluppo). Ha una tappa simbolica di riferimento il 24 maggio 2015 quando con l’agronomo Andrea Aru, il responsabile del CNR - ISPA UOS Sassari Guy D’hallewin, l’archivista Daniela Aretino e un bel gruppo di cittadini abbiamo passeggiato per alcuni giardini della nostra città, bellissimi esempi di piccoli frutteti, di agrumi, mandorli, melograni, olivi conservati negli anni per la cura di appassionati cittadini, contadini, artisti.

Con Massimo Sanna, Roberta Baraglia e Andrea Aru, in questi anni abbiamo visitato e studiato questi giardini, li abbiamo fotografati e abbiamo raccolto tante bellissime storie. E ora speriamo di riuscire a rendere pubblico questo lavoro anche con una pubblicazione perché dare valore ai giardini nelle nostre città ci riempie di vita e bellezza. Ci fa sperare di dare risposte immediate ai cambiamenti climatici e alla crisi ambientale, ritornando alla semplicità e alla sobrietà che questi frutti ci ispirano, all’autoproduzione e alla trasformazione delle città in giardini e in giungle urbane come propone il botanico, accademico e saggista Stefano Mancuso, facendoci aiutare soprattutto dalla rigenerazione spontanea forestale.

Ci sono tanti altri aspetti di cui parlare in una visione futura della nostra realtà, e il vostro è uno spazio aperto a futuri contributi.

Cosa vorrebbe che rimanesse di questa breve conversazione, quali semplici consigli darebbe ai giovani e alle giovani delle nostre comunità per spingere il cambiamento?

Vorrei far emergere il valore della partecipazione e della responsabilità di ciascuno di noi nel fare delle scelte. Nel cambiare dal di dentro, nell’agire concretamente.

Di vita comunitaria si sente sempre più il bisogno, ma non si trovano le modalità nuove per praticarla se non in contesti spesso formali e vuoti.

E d'altronde la cittadinanza attiva non si insegna, si pratica; i valori non si insegnano, si praticano.

E allora dobbiamo avviare una pratica di incontro, riflessione, ascolto dove ritrovare le nostre radici materiali e spirituali che ci legano alla terra, alla vita. Sentiamoci comunità intenzionale che progetta la rivoluzione delle coscienze. E lasciamo spazio ai giovani e alle loro soluzioni, al loro essere il futuro.

 

Grazie e buon lavoro.

 

 

 

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Marina Muscas

  

 

Marina Muscas

(Iglesias, classe 1955)

1972 Maturità Magistrale; 1997 Corso di perfezionamento a distanza in “Comunicazione educativa e didattica” di durata annuale dell’Università degli studi di Padova. Moglie, madre, insegnante di scuola primaria per trentasei anni, promotrice e coordinatrice di progetti territoriali nei campi della qualità della scuola, della lotta alla dispersione scolastica, della ricerca storico-antropologica e della pratica didattica relativa alla memoria storica con l’utilizzo di tantissimi strumenti (rappresentazioni teatrali, filmati, murales, album di figurine, animazioni nelle piazze, contributo per la realizzazione del Museo dei Bambini di Monteponi). Ha curato numerose piccole pubblicazioni che hanno raccolto esperienze culturali e didattiche collettive. Per anni ha portato nella scuola i temi della pace e della realizzazione dell’orto scolastico con esperienze che hanno coniugato l’apprendimento cognitivo a quello emozionale, i contenuti con i valori, gli stili di vita e l’essenza della vita. Impegnata da sempre nello scenario politico-culturale della città, co-fondatrice della Scuola Civica di Politica - La Città in Comune e dell’esperienza “I giardini della Biodiversità”, ha collaborato con numerose associazioni credendo fortemente nel lavoro in rete e nella forza collettiva per migliorarsi crescendo insieme.

 

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